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Ne scrissero Natoli e Camilleri e imbarazzò la Chiesa Siciliana: la diatriba dei ceci di Lipari

Ruota tutto attorno a 2 libbre e mezzo di ceci. Una storia del 1700 che ha dell'incredibile, se non fosse che ogni cosa in Sicilia è sempre stata portata all'esasperazione, soprattutto se di mezzo c'era la Chiesa

Susanna La Valle
Storica, insegnante e ghostwriter
  • 7 dicembre 2021

Ceci (foto da Riza.it)

Diciamola tutta, quando succede qualcosa in Sicilia, anche la cosa più irrilevante, questa può produrre effetti deflagranti, anche a livello nazionale. Di vespro in vespro, di regno in regno , è come un battito d’ali di farfalla che scatena, in un altro luogo, un uragano.

Era una mattina come tutte le altre, quella del 22 gennaio del 1711, a Marina corta a Lipari. Il Vescovo Don Nicolò Tedeschi, aveva mandato due emissari a vendere alla “apoteca” di Nicolò Buzzanca dei sacchi di ceci, frutto delle decime degli affittuari. A quell’epoca su tutta la merce gravava una “tassa di mostra”, dovuta al governo della città; imposta che era controllata da vigili chiamati Catapani.

Questi entrando nella putia, si accorsero che non era stata applicata ai sacchi di ceci, e sanzionarono il negoziante. Alle proteste del commerciante risposero che trovandosi la merce del Vescovo in un pubblico esercizio, non aveva diritto all’esenzione, aggiungendo che se il Vescovo avesse voluto evitare la sanzione avrebbe dovuto vendere i suoi prodotti presso l’Arcivescovato.
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Il negoziante richiamò gli emissari, ne nacque una disputa verbale che portò al sequestro dei ceci da parte dei vigili. L’accaduto fu raccontato all’alto prelato che poco incline a pagare la tassa, scrisse una lettera ai giurati del Tribunale della Monarchia. Nella missiva erano invocate pene, scomuniche e funesti eventi che avrebbero raggiunto la popolazione per l’atto sacrilego compiuto.

Per evitare l’inasprirsi della situazione, i giudici dissero ai Catapani di restituire i ceci. La decisione non piacque però a Don Nicolò che desiderava fosse riconosciuto con un atto pubblico il diritto di esenzione. Scrisse un'altra lettera, dove dichiarò i Catapani “Vitandi “ (da evitare), cioè li scomunicò. Questi ricorsero a loro volta al Tribunale, che non poté fare altro che
assolverli, considerando che i ceci erano stati restituiti.

Il Vescovo inferocito per l’assoluzione inviò un Canonico al Viceré a Messina. Questi disse che Lipari, con Alfonso il Magnanimo, era stata sottratta dal Regno di Sicilia e attribuita ai territori del Regno di Napoli. Cosa non del tutto vera, perché con un atto successivo era ritornata alla Sicilia. Il Viceré infastidito dall’atteggiamento del Canonico lo fece incarcerare. Saputo il fatto, il Vescovo si precipitò dal Viceré, sostenendo con veemenza le sue ragioni.

Questi per chiudere la questione fece scarcerare il canonico, ma non ratificò la scomunica dei Catapani, né tanto meno riconobbe il diritto di esenzione. La descrizione dello stato del Vescovo, la lasciamo alla fantastica penna di Natoli: “Giallo di dispetto, verde di bile, pallido di collera, rosso di vergogna, s’imbarcò per Roma chiedendo udienza al Papa.”.

È a questo punto che quel battito d'ali diventa tempesta.

Il Papa riteneva la diocesi di Lipari un privilegio dipendente dalla Sede Apostolica secondo una bolla di Papa Urbano II del 1091. Annullò quindi l’assoluzione dei Catapani, scomunicandoli nuovamente. Ma la questione era tutt'altro che risolta, perché i ceci rappresentavano qualcosa che da tempo la Chiesa di Roma cercava di risolvere, parliamo di una bolla che lo stesso Urbano II aveva emanato nel 1098 per ringraziare Ruggero D’Altavilla di aver sottratto l’isola agli arabi restituendola al cristianesimo.

È la “Legazia Apostolica”, atto con cui si riconosceva al Re di Sicilia per nascita e per diritto, in qualità di rappresentante del Papa (Legato), la possibilità di nominare i Vescovi, derimere controversie religiose, decidere, in sede di appello attraverso il “Tribunale della Monarchia”.

I ceci furono quindi un pretesto per cercare di eliminare un privilegio riconosciuto alla Chiesa Siciliana, sottratta al potere della Curia di Roma. Situazione ben rappresentata nelle cattedrali delle città siciliane dove c’erano due troni, uno per il Re l’altro per il Vescovo. Problema che sarà discusso persino in una delle sessioni del Concilio di Trento a metà del cinquecento.

Le ragioni del Vescovo di Lipari abbiamo visto che troveranno nel Papa uno strenue difensore. Questi volle che fossero affisse le sue decisioni in tutte le diocesi siciliane, dove oltre a ribadire la scomunica, le invitava all’indipendenza dal Regno di Sicilia. L’imbarazzo della Chiesa Siciliana fu grande, alcune diocesi decisero di ignorare le decisioni papali, altre cercarono un compromesso, altre ancora le accettarono causando espulsioni e carcere da parte del Regno di Sicilia (non è un caso che a Roma vi fossero nel 1717 millecinquecento esuli siciliani).

A questi atti le chiese siciliane fedeli al Papa, risposero con scomuniche e interdetti, con ricadute sulla celebrazione pubblica di matrimoni, battesimi e funerali, e con la proibizione del seppellimento di laici all’interno delle chiese.

Nel 1749 la controversia Liparitana fu risolta con una rinuncia da parte del sovrano. La Legazia Apostolica invece continuò a essere un problema fino al 1871, quando lo Stato Italiano forte dei suoi principi liberali rinuncerà ai diritti sulla Sicilia. Situazione che però non risolverà il problema dell’attribuzione dei beni tra Stato e Chiesa, che si trascinerà fino ai Patti Lateranensi di Mussolini.

Questa diatriba sui ceci di Lipari, colpirà storici che studieranno bolle e documenti, scrittori come l’autore dei Beati Paoli, che dedicherà alcune pagine nel suo Romanzo, Leonardo Sciascia che la racconterà in una commedia “Recitazione della controversia liparitana dedicata ad A.D.” e Andrea Camilleri che ne parlerà nel “Re di Girgenti”.

È una storia che qualcuno direbbe tipicamente siciliana, dove l’evolversi di una questione è spesso difficile da comprendere, prevedere e misurare, soprattutto quando tutto ha origine da due libbre e mezzo di ceci, del valore di 8 grani.
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