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Oltre ai Florio c'erano gli Ahrens: storia di una famiglia che rese "Palermo felicissima"

Forse non tutti sanno che alla fine dell'Ottocento una famiglia di origine ebrea, in arrivo dalla Germania scelse di trasferirsi a Palermo per portare innovazione

  • 18 novembre 2021

Johanna Benjamin e Albert Ahrens

Nel lontano 1875 un uomo lasciò la Germania per stabilirsi a Palermo, città che a quel tempo era ricca di palazzi eleganti, ampie strade ed era territorio fertile per chi desiderava fare fortuna.

L’uomo in questione è Albert Ahrens, tedesco e di famiglia ebrea, che sognava di portare nel capoluogo siciliano delle innovazioni per poter contribuire all’evoluzione della “Palermo felicissima” che in quel periodo stava vivendo un’epoca positiva nel settore dell’industria.

Con la sua determinazione e perseveranza riuscì nel suo intento creando una società dal nome “Ahrens & C.” che portava in Sicilia i tessuti che al nord Europa erano già molto apprezzati.

Si occupò anche di produrre mobili in serie e vini, con una catena di montaggio che permetteva di lavorare l’uva e di avere il prodotto finale imbottigliato con etichetta annessa. Ma non fu da solo a compiere questa impresa.

Come racconta la discendente della famiglia Ahrens, Agata Bazzi, nel suo libro "La luce è là", al fianco di Albert c’era una donna, anche lei tedesca, che lo supportava nei suoi progetti: era Johanna Benjamin.
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Si erano conosciuti quando lui era ancora in Germania, ma non si sentiva all’altezza per poterle fare la corte, in quanto Johanna apparteneva ad una famiglia agiata. Così, quando Albert iniziò la sua ascesa nel capoluogo siciliano, il suo primo pensiero fu rintracciarla per invitarla a raggiungerlo.

In seguito all’arrivo di Johanna, i due vissero nella villa che fece costruire Albert nel quartiere San Lorenzo di Palermo, villa Ahrens (sede attuale della Dia, Direzione Investigativa Antimafia), il “nido” della coppia dove vissero, con i loro otto figli, il loro successo imprenditoriale.

Sulla facciata della villa, Albert fece scolpire una scritta, ovvero “Lik dor” (La luce è la), divenuta, successivamente, titolo del libro di Agata Bazzi citato precedentemente. La scritta fu significativa per la famiglia Ahrens in quanto era un messaggio di prosperità e di speranza per la famiglia e per la città.

Johanna decise di aprire le porte della loro dimora per poter aiutare i più bisognosi, in particolar modo gli abitanti del rione dove era situata la villa, e scelse un giorno specifico della settimana: il giovedì pomeriggio.

Era un momento che risultò fondamentale per coloro che decisero di recarsi a Villa Ahrens perché non solo potevano usufruire delle pietanze messe a disposizione ma avevano anche la possibilità di confidarsi con Johanna che, con la sua gentilezza, era sempre pronta ad ascoltarli.

In questo modo, gli Ahrens riuscirono ad integrarsi ancor di più nel territorio, facendosi conoscere, facendo apprezzare la loro bontà, intelligenza e intraprendenza. Erano amati dalla città, avevano tanti amici ma tutto ciò non veniva ostentato. Come non era ostentata la loro modernità culturale.

Gli Ahrens viaggiavano molto, parlavano più lingue e avevano una cultura mitteleuropea. Tutte caratteristiche che potevano entrare in contrasto con i palermitani dell’epoca ma che gli Ahrens hanno sempre tenuto per sé mostrandosi umili e riservati, nonostante la loro apertura al mondo.

Quel periodo di fioritura e luce, purtroppo, subì una decadenza a partire dalla Prima Guerra Mondiale, momento che segnò l’inizio del declino dell’attività imprenditoriale degli Ahrens e dell’industrializzazione di Palermo.

Infatti Albert, a malincuore, decise di mettere la parola “fine” alla Ahrens & C., ciò che gli aveva permesso di crescere professionalmente ma che ormai non poteva più esistere. Dopo la sua morte, poi, Villa Ahrens fu ceduta allo Stato in prossimità dell’entrata in guerra dell’Italia nel 1940 a fianco della Germania.

Perso anche il loro porto sicuro, Johanna divenne l’unico pilastro della famiglia, l’ancora di salvezza che, dopo la fine delle guerre, cercò di tornare alle attività familiari organizzando gite e pranzi domenicali.

Ma tutti sentivano, nel profondo del loro cuore, che non era più lo stesso.
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