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Avola e il terremoto dimenticato: il dramma, la ricostruzione e la (nuova) città esagonale

Il sisma, nel 1693, colpì in due tempi l’intera Val di Noto, il 9 gennaio la prima scossa e l’11 una seconda, la più intensa, diede il colpo di grazia ad un territorio che ancora faceva la conta dei danni

  • 13 gennaio 2022

Il mese di gennaio è un mese che in Sicilia rimanda ad eventi sismici disastrosi. Uno è ancora vivo nella memoria di chi ha almeno 60 anni ed abita nel versante occidentale dell’Isola, si tratta del terremoto che la notte tra il 14 e il 15 gennaio del 1968 sconquassò la valle del fiume Belìce.

L’altro evento è collocato molto più indietro nel tempo, bisogna ritornare al lontano 1693, nei giorni tra il 9 e l’11 gennaio, quando l’intera Val di Noto, un’area geografica molto ampia, compresa tra le province di Siracusa, Ragusa e parte di
Catania, fu interessato dal sisma, forse il più violento che abbia colpito l’Italia in epoca storica.

Più di tre secoli sono tanti eppure quell’evento è ancora presente nella memoria collettiva anche perché le conseguenze sono scritte nella geografia e nella fisionomia dei luoghi, sono leggibili nella ricostruzione dei palazzi e delle chiese in quello stile barocco che è valso al sud est siciliano il riconoscimento Unesco.
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Circa settanta tra piccole borgate, paesi e città furono in parte o totalmente rasi al suolo ed i danni furono talmente ingenti che alcuni centri non furono ricostruiti in situ ma spostati, in alcuni casi anche di chilometri. Sono esempi tangibili comuni come Ispica, Scicli, Giarratana, Grammichele, Sortino, Noto ed Avola. Ed è di quest’ultima che vogliamo ripercorrere i passi che la videro in poco tempo arrendersi alla forza della natura e rinascere nella sottostante pianura costiera.

Ogni anno in questo periodo gli avolesi, guardando verso le colline in direzione dell’Eremo Madonna delle Grazie, non possono fare a meno di ricordare l’evento che ha cambiato per sempre la storia della loro città, strappandola dalle balze calcaree del monte Aquilone su cui per secoli era rimasta arroccata assumendo dall’alto le forme di un drago alato e proiettandola verso un futuro di città moderna, solare, con nuovi orizzonti non solo geografici.

Numerosi studiosi e appassionati hanno contribuito nel tempo a ricostruire la memoria di quei drammatici giorni, ognuno aggiungendo un tassello ad un puzzle non ancora del tutto completo. Su tutti, la professoressa Francesca Gringeri Pantano, avolese di adozione, con il volume “La città esagonale”, ha saputo ricostruire nei dettagli tutte le fasi dei drammatici momenti che hanno sancito il passaggio dal borgo medievale alla moderna città dall’impianto rinascimentale.

Vale la pena percorrere i tornanti della sp4 che dalla pianura conducono al Belvedere di Cava Grande, per farsi un’idea del sito in cui sorgeva l’antica Avola. Una terrazza panoramica detta Primo Belvedere permette di cogliere dal basso il profilo del colle su cui sorgevano i quattro quartieri dell’importante centro medievale dei Marchesi Aragona Pignatelli. Sulla cima del colle un castello dominava il borgo e spaziava ad ampio raggio sulla costa siracusana.

È ancora possibile individuare lungo la strada le grotte artificiali scavate nel tufo che erano parte delle abitazioni degli avolesi. Coperte dalla vegetazione sono visibili anche alcune delle antiche strade del borgo, mulattiere, in parte a gradini, che si inerpicavano seguendo le asperità del terreno.

Una parte del sito di Avola Antica è di proprietà del comune, è stato oggetto di lavori di messa in sicurezza ed è in attesa di trovare una sua vocazione di sito archeologico e soprattutto di luogo della memoria collettiva di una comunità orgogliosa che non ha mai dimenticato la sua storia. La contrada di Avola Antica oggi si ripopola d’estate quando in molti vi si trasferiscono nelle seconde case per la villeggiatura.

Il sisma colpì in due tempi l’intero Val di Noto, il 9 gennaio la prima scossa e l’11 una seconda, la più intensa, diede il colpo di grazia ad un territorio che ancora faceva la conta dei danni. Dai dati raccolti, anche se non si può avere la certezza dei numeri, si parla di circa 60000 vittime. Ad Avola i morti furono circa un sesto dei suoi 6000 abitanti. Quello che colpisce nel dopo-terremoto è la capacità con cui si organizzò la ricostruzione.

Le ragioni che portarono gli avolesi a scegliere un nuovo sito furono molteplici. La maggior parte degli edifici erano andarti completamente distrutti, a differenza di quelli in pianura che avevano retto meglio alle scosse telluriche. Si prospettava inoltre la possibilità di edificare una città del tutto nuova con strade ampie e luminose che si potesse espandere secondo le esigenze della modernità. La collocazione sull’antica via Elorina, permetteva di innestarsi lungo importanti rotte commerciali.

Anche dal punto di vista climatico il nuovo sito aveva i suoi vantaggi. Fu incaricato di disegnare la pianta della città l’architetto e scultore gesuita Frate Angelo Italia da Licata, una delle figure più illustri del barocco siciliano, che operava prevalentemente a Palermo. Erano passati solo due mesi dall’11 gennaio e nei primi giorni di marzo, mentre gli avolesi erano accampati intorno al trappeto della cannamele, si progettava la rinascita.

L’impianto della nuova Avola fu presto deciso, avrebbe avuto la forma di un esagono, una forma cara al gesuita licatese, che l’aveva già utilizzata per le cappelle della chiesa di san Francesco Saverio a Palermo. L’esagono regolare è una forma geometrica perfetta, è simbolo di abbondanza, lo ritroviamo nelle celle dell’alveare e, sarà forse solo un caso, le api erano presenti nello stemma cittadino a ricordare l’operosità dei suoi abitanti. Ma il nuovo impianto urbano non è da leggersi solo in chiave puramente estetica o addirittura esoterica, ha una sua logica e un suo pragmatismo.

L’orientamento delle strade è pensato in base alla direzione dei venti prevalenti nella zona, per arieggiare e rendere salubre l’aria all’interno dell’abitato, le strade sono oblique rispetto ai canali naturali delle acque piovane che scendono dall’altopiano per impedire allagamenti del centro.

Non è casuale neanche la distribuzione delle piazze. Sono cinque, in quella centrale si incrociano i due assi viari principali, alle cui estremità sono poste le altre quattro piazze, ognuna con la sua chiesa. Questi spazi ampi, a cui si vanno ad aggiungere i numerosi cortili, nelle intenzioni del progettista erano le aree di raccolta dove radunarsi velocemente, attraverso le agili strade rettilinee del centro, in caso di nuovo sisma.

Non c’è dubbio che nella rinascita della città si riuscì a trovare la sintesi tra i nuovi canoni di bellezza dello stile barocco, riconoscibile soprattutto negli edifici religiosi, e le esigenze dettate dalla necessità di mettersi in salvo in caso di sisma. Sono esempi di cui non si deve perdere la memoria perché hanno molto da insegnare a un popolo, quello italiano, che con i terremoti non ha ancora imparato a fare i conti.
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