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Quando Danilo Dolci digiunò per Palermo

  • 11 dicembre 2006

«I nostri figlioletti non han pane, e chi sa? forse moriran domani / invidiando il pranzo ai vostri cani, e noi falciamo le messi a lor signori». Con questi versi il poeta etneo Mario Rapisardi si pose al fianco dei contadini, degli operai isolani e degli zolfatai di Lercara, di Enna e di Caltanisetta che avevano dato vita ai Fasci Siciliani dei Lavoratori. Un movimento di massa d’ispirazione democratica che era stato fondato ufficialmente a Catania il primo maggio del 1891 per protestare contro i latifondisti collusi con la mafia che da anni – lo avevano ufficialmente accertato le inchieste di Franchetti e Sonnino – si era infiltrata nello Stato postunitario.

Ma quando nel 1952 Danilo Dolci era giunto in Sicilia aveva dovuto rendersi conto che, più di mezzo secolo dopo l’intervento di Rapisardi, quei versi non avevano, per così dire, un senso per i contadini di Partinico privi come essi erano perfino di un padrone con cui prendersela dato che restavano disoccupati per la maggior parte dell’anno. E che perciò, come accadeva in parecchie altre comunità della provincia palermitana, andavano a infittire le schiere degli ultimi della terra che lo stesso sociologo triestino con dolente ironia indicava come i suoi cari “industriali”. Quelli che per sfamare le famiglie si industriavano, appunto, a inventarsi le più dimesse attività. Come facevano i cenciaioli al Cortile Cascino oggi fortunatamente raso al suolo, i raccoglitori delle foglie di palma nana che servivano a fare i pesanti mazzi di scope da rivendere per strada.

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E i cacciatori di rane, note anche come “i pisci cantanti” e che opportunamente private della pelle e delle teste dagli occhi sporgenti comparivano sui banchi più sguarniti di periferia. Mentre i figli dei pescatori di Trappeto e Balestrate morivano di fame perché il tritolo dei bombaroli mafiosi uccideva e stornava i pesci dalle coste o squarciava le reti che a rischio della vita, con qualunque tempo, venivano calate lungo quei litorali. Né, come abbiamo accennato, la situazione era migliore perfino in certe sacche di povertà del capoluogo regionale. Dove il posto simbolo del malessere sociale era l’accennato cortile cui si accedeva da alcuni vicoletti che si aprivano su corso Alberto Amedeo – a due passi dalla Cattedrale – e scendevano nel fondo della depressione del Papireto e Danisinni dove decine di stamberghe affondavano nel fango e sulle fogne a cielo aperto lungo la ferrovia Palermo-Trapani.

Una realtà della quale Danilo Dolci e i suoi collaboratori avevano dato notizia in tutta Europa. E fu dunque inevitabile che lo stesso apostolo della non violenza, una decina di giorni prima del Natale 1956 - reduce da un altro estenuante digiuno a Trappeto - scegliesse una baracca di cortile Cascino per effettuarvi lo stesso genere di protesta. Una manifestazione che però nella città già in parte in mano ai giovani turchi democristiani ebbe un drammatico effetto domino di grande risonanza. Dato che gli altri disperati della provincia decisero che il 23 dicembre e per 24 ore avrebbero rinunciato anch’essi al loro vergognoso cibo d’accatto, costituito prevalentemente di verdure ed erbe selvatiche nemmeno condite da un cucchiaio d’olio.

Protestando perciò, col più assoluto digiuno, oltre che nelle stamberghe palermitane di Sant’Antoninello ‘u Siccu – dove un tempo si scavavano le fosse comuni degli indigenti – anche nei pagliai piantati sulla creta umida nei feudi di Tudia, Arcia e Turrumè. In quell’occasione Danilo Dolci ebbe la solidarietà anche dei ragazzi che qui frequentavano i vicini licei tra corso Vittorio e la salita Montevergini oltre a quella di molti intellettuali arrivati da ogni parte d’Italia ma anche dall’estero. E naturalmente non gli venne meno il sostegno del giornale “L’Ora” diretto da Vittorio Nisticò. Sulle cui pagine lo stesso sociologo – prima di tornarsene dai suoi “banditi” analfabeti del quartiere Madonne di Partinico – scrisse: «E’ necessario che tutti sappiano in quale soggezione vive la gente sotto il dominio di un pugno di mafiosi, da Bisacquino a Caccamo, da Sciara a Polizzi e qui dal Borgo Vecchio alla Kalsa e a Danisinni. Dove diversi bambini sono morti perché morsicati dai topi. Non ho, non abbiamo mai creduto che i siciliani siano meno figli di Dio di qualsiasi altra popolazione del mondo».

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