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Tommaso Chacon, l'annaffiatore del Cassaro

  • 5 dicembre 2005

A metà del Settecento, quando i pochi senatori del Palazzo Pretorio provvedevano egregiamente a migliorare la vita dei palermitani, ci fu un nobile amministratore che per la sua attività a favore della pubblica igiene e della sicurezza notturna nelle strade non ricevette adeguato merito. Ci riferiamo al tuttavia benemerito Duca di Sorrentino, don Tommaso Chacon, che i concittadini meno colti conobbero meglio come “Giacona”. Il primo degli interventi di Chacon, sicuramente notevole, riguarda il fatto che proprio a metà del secolo dei lumi – nell’aprile del 1745 – fu lui a cominciare a fugare le tenebre notturne dalle vie più centrali. Con un progetto subito esecutivo d’illuminazione pubblica tramite fanali ad olio “dalla foggia d’Oltralpe” e sospesi a robuste funi tese tra un palazzo e l’altro.

Un’iniziativa che si estese rapidamente al resto della città, anche perché una decina di nobili, obbligandosi a fornire l’olio necessario, ottennero dalla relativa Deputazione senatoria parecchi di quei fanali che appesero davanti e intorno ai loro palazzi. Ed uno di tali aristocratici fu Francesco Emanuele, marchese di Villabianca, che sul vetro del fanale posto davanti alla casa di Piedigrotta fece apporre addirittura un piastrino con le armi della sua nobile casata. Ma fu proprio la foggia parigina degli stessi fanali scelti personalmente quarant’anni prima che finì per riservare a Chacon postuma ingratitudine. Successe quando nel 1785 dodici lumi, tali e quali quelli del 1745, s’accesero nel Cassaro per volere del Vicerè Caracciolo ma non furono per niente apprezzati – pare proprio “per la foggia parigina” – da parrucconi locali anti illuministi nel senso più lato. Ciò che ne causò l’immediata rimozione e il trasferimento nei bui viali della Villa Giulia di quel tempo. Episodio riferito dal reazionario Villabianca che giunse a dir male dei fanali che piacquero a Chacon – scrisse nei Diari “evidente che non sempre le cose di Francia sono da copiare” – pur di criticare quel Viceré. Che era invece abituato ai modi parigini e che tre anni prima gli aveva smantellato la sua amata Inquisizione.

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Ma l’episodio che più amareggiò il buon Duca di Sorrentino fu, qualche anno dopo, il fallimento del congegno da lui escogitato per innaffiare le basole del Cassaro. Davvero fuori del comune, anche se a suo modo ingegnoso, e la cui descrizione lasciamo alle parole anche insolitamente plebee del dispettoso diarista che fu sicuramente il più bravo reporter del nostro Settecento. Scrisse dunque il Villabianca che l’acqua che soleva gettarsi nel litorale di Porta Felice e nello stradone del Cassaro, dal 24 di giugno a tutto agosto, per levare in qualche maniera l’incommodo della noiosa polvere, vi fu gettata nel corrente anno 1748 nel seguente modo. Si situò sopra un carrozzone di bovi una stipa (un grande serbatoio, ndr) della capacità di botti due e barili sei, piena di acqua, e da essa con una larga manica fatta di cuoio, voltandola un uomo da una parte a un’altra, spandeva l’acqua che ne bagnava da ogni lato il cammino: Questa stipa poi si riempiva di nuovo nelle fonti del pretore (…).Li buglioli ossia tinelli di legno che per l’avanti adopravansi per questo ufficio, si posero da parte: e ciò fu opera e pensamento del senatore Tommaso Giacona. Ma per due anni soltanto fu in uso tale stipa d’acqua, e poi non più, perché la spesa che richiedeva, invece di risparmio ,recava maggiore interesse. Era cosa per altro ridicola la veduta di quella manica, che pisciava alla guisa di un c…, ed era nomata popolarmente “la minchia di Giacona”.

Sappiamo pure che ci vollero quasi trent’anni perché qualcun altro, per di più con una non eccezionale levata d’ingegno, sostituisse la moscia manica di pelle con un apparecchio assai più pratico che non suscitasse l’ironia sempre pungente dei palermitani. La soluzione del problema ce la ricordò l’inarrivabile Nino Basile: Più tardi, nel 1778, lo strumento di pelle che aveva reso ridicolo il carro botte del Duca di Sorrentino venne sostituito con un tubo di legno, lungo e largo, provvisto di un buon numero di cannellette.

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