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Il mistero della "spada nella porta": perché è conficcata in un antico palazzo di Palermo

Come mai l’elsa è stata conficcata nel portone di questo illustre palazzo. C'è una leggenda che collega l’arma ad un tradimento e a un delitto d’epoca normanna

Maria Oliveri
Storica, saggista e operatrice culturale
  • 31 ottobre 2023

L'elsa della spada conficcata nel Palazzo Arcivescovile di Palermo

A Palermo, in Via Bonello, si nota ancora oggi l’elsa di una spada, inchiodata sul battente destro del portone dell’antico seminario arcivescovile: secondo la tradizione sarebbe quanto rimane dell’arma con cui Matteo Bonello, in combutta con il Vescovo Ugo, il 10 Novembre del 1160, uccise il primo ministro del re Guglielmo I, Majone da Bari.

L’elsa arrugginita sarebbe dunque testimonianza di cruenti fatti avvenuti a Palermo molti secoli fa.

Racconta lo storico Tommaso Fazello - nel volume “Della Storia di Sicilia” - che il Bonello (1125-1161), signore di Caccamo, aveva acquistato grande fama, per la sua abilità nel combattere: egli era ostile alla politica accentratrice dell’ammiraglio Majone da Bari.

Questi invece, aveva fiutato le potenzialità del Bonello e aveva voluto legarlo a sé, promettendogli in moglie sua figlia. Matteo si era però invaghito di un’altra donna, della figlia naturale di re Ruggiero, e aveva cominciato a disprezzare e maltrattare la sua promessa sposa, facendo di tutto perché si annullassero le nozze.
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Per allontanarlo dalla pericolosa signora, Majone aveva inviato il Bonello in Calabria, con un incarico importante: sedare gli animi della nobiltà, nella parte continentale del Regno, dove regnava il malcontento e ardeva la ribellione nei confronti dell’Ammiraglio.

Bonello, persuaso dalle parole del nobile Ruggero Marturano, finì per unirsi alla congiura dei signori pugliesi e calabresi contro Majone, e affermò che avrebbe avuto piacere a strangolare il primo ministro, nemico della corona, con le sue stesse mani.

A Palermo nel contempo l’Ammiraglio e l’Arcivescovo Ugo, che dapprima avevano tramato insieme per uccidere il re e spartirsi ricchezze e potere, non riuscivano a mettersi d’accordo. Scrive sempre il Fazello: “Questi due, che s’eran fatti fratelli giurati, cominciarono a procurar di ammazzarsi l’un l’altro.

L’Ammiraglio cercava far morire l’arcivescovo per via di veleno e l’arcivescovo pensava di far ammazzare l’Ammiraglio a furor di popolo, col mostrare che egli era traditore del re”. I problemi con il Vescovo non erano i soli che affliggevano il primo ministro: il vicerè di Calabria lo aveva avvisato dei piani orditi contro di lui dal Bonello, che una volta tornato dalla Calabria si era rinchiuso nel suo castello.

Matteo giocando d’astuzia scrisse a Majone con toni amichevoli, affermando che tutto si era accomodato e che i baroni erano disponibili a collaborare con il primo ministro. Lo pregò inoltre, visto il buon esito della sua missione, di affrettare i preparativi delle nozze con la sua figliuola.

Maione si pentì di aver creduto alle voci su Matteo, placò la sua ira e pensò che non era possibile che Bonello desiderasse essergli genero e che al contempo congiurasse per ucciderlo! Rispose dunque al giovane di tornare a Palermo, senza timore alcuno, che già fervevano i preparativi per il matrimonio.

Il barone scese in città e quella notte stessa si recò di nascosto dal Vescovo, che era molto malato ed era a letto con la febbre, per metterlo a conoscenza dell’esito del suo viaggio in Calabria.

Il Vescovo a sua volta gli raccontò che non mangiava e non beveva alcunchè che non venisse prima assaggiato, perché sapeva che Majone voleva avvelenarlo.

Il primo ministro dal canto suo non comprendeva come mai l’arcivescovo non fosse ancora morto: perchè il veleno non faceva effetto? Non era abbastanza potente? Trascorsi alcuni giorni, dopo il rientro di Bonello a Palermo, Majone decise di andare a trovare il Vescovo, per somministrargli di persona la cicuta.

La casa di Ugo Arcivescovo sorgeva allora tra la cattedrale e il fiume Papireto. Majone si sedette vicino al letto del Vescovo, gli chiese come si sentisse e avendogli quello risposto che stava male, gli disse di rallegrarsi, poiché gli aveva portato un medicinale miracoloso, in grado di guarire la sua infermità.

Il Vescovo sospettando dell’Ammiraglio si rifiutò di prendere il farmaco, adducendo varie scuse e nel frattempo riuscì a inviare un messaggio a Bonello, facendogli intendere che era arrivato il tempo di agire: avrebbe trattenuto Majone con le chiacchiere, aspettando il suo arrivo, ma si raccomandava che facesse in fretta.

L’Ammiraglio, stanco della lunga e infruttuosa discussione col Vescovo, a un certo punto decise di andare via, visto che l’ora gli pareva già tarda e prese commiato.

L’imboscata fu studiata nei minimi dettagli, vennero disposti uomini di Bonello lungo le strade vicino alla cattedrale, in particolare lungo la via coperta che andava da casa dell’Arcivescovo al palazzo del re, affinchè Majone non potesse fuggire. Alcuni dignitari di corte tuttavia riuscirono ad accostarsi all’Ammiraglio, per avvisarlo dell’agguato.

Egli, quasi incredulo chiamò a gran voce, sperando di essere smentito: “Matteo!”. Bonello venne allo scoperto, brandendo una spada affilata e colpì diverse volte a morte Maione, che dopo aver parato il primo colpo, fu mortalmente ferito dai colpi successivi, cadde per terra e spirò.

Secondo la leggenda il Vescovo Ugo, raggiante, quella spada volle farsela regalare e l’inchiodò sulla porta del seminario, perché fosse di eterno ammonimento al potere politico.

Bonello fuggì, si ritirò con i suoi uomini nel castello di Caccamo, aspettando gli eventi, mentre in città cominciava a circolare la notizia della morte di Majone e tutti ne gioivano: venivan fuori odi e rancori. I figli dell’Ammiraglio, vennero imprigionati, torturati e confessarono il tradimento del padre.

Il re, appreso il fatto di sangue, si indignò che nessuno lo avesse avvertito della cattiva condotta del primo ministro; mentre la regina Margherita di Navarra, che era molto affezionata all’Ammiraglio, non voleva sentire una sola parola contro Majone, era molto in collera.

Re Guglielmo, pur non fidandosi di Bonello, inviò un uomo di fiducia a Caccamo, per comunicare al barone che senza paura alcuna, poteva tornare a Palermo, perché egli aveva scoperto il tradimento del suo cancelliere ed era felice della sua morte.

Matteo rientrò in città, con i suoi uomini e venne accolto da una folla di palermitani come liberatore della patria.

Il sovrano lo accolse con tutti gli onori al palazzo Reale e il barone “si acquistò nome di valoroso e forte non solo in tutta la Sicilia, ma nella Puglia, nella Calabria, ed in Campania”. Nel frattempo il Vescovo Ugo, che era malato, passò a miglior vita e la sua morte privò il Bonello di un importante appoggio.

Gli uomini di corte, che sapevano che Bonello era venuto a patti con i nobili di Calabria, Puglia e Campania, misero il sovrano in guardia: potevano unirsi al perfido barone anche i nobili siciliani e il popolo, schierandosi contro il monarca. Il re cominciò allora ad assumere un contegno freddo nei confronti del signore di Caccamo che, temendo per la sua vita, pensò di agire prima di Guglielmo: convocò molti signori di Sicilia, lamentandosi che il sovrano invece di ringraziarlo per aver ucciso Majone, il traditore, lo aveva preso in odio come nemico.

Una nuova congiura venne ordita e nella notte del 9 marzo del 1161, i nobili palermitani, temendo di esser scoperti, non attesero l’arrivo da Caccamo di Bonello, e agirono. Si intrufolarono nel palazzo, guidati dal Conte Simone, fratello bastardo del re, e giunsero sin nella stanza del sovrano.

Alcuni cercarono di ammazzarlo a mani nude, ma alla fine Guglielmo si salvò e fu condotto in prigione. Il palazzo reale fu saccheggiato e gli uomini del re vennero fatti a pezzi. I congiurati allora presero con loro Ruggiero, figlio del re, un bambino di 9 anni e dopo averlo posto su un cavallo bianco, lo fecero sfilare per le vie della città, al grido di “Viva il re!”.

Attendevano che si facesse giorno, e giungesse Bonello, per incoronarlo; ma arrivò l’alba, trascorsero tre giorni e Bonello ancora non si vedeva. Il popolo non esultava più, ma rumoreggiava.

I nobili cominciarono ad aver paura. Andarono nelle prigioni e avendo ottenuto dal re la promessa di non subire ritorsioni, lo condussero nelle stanze reali e lo mostrarono al popolo: Guglielmo era ancora in vita.

La plebe ebbe compassione del re caduto in disgrazia e cercò di entrare nel palazzo per punire i congiurati: le porte del palazzo furono aperte e alcuni nobili fuggirono.

In questa caotica situazione il piccolo Ruggiero, affacciatosi dalla torre pisana durante il tumulto, venne ferito da una freccia e morì. I congiurati fuggirono a Caccamo da Bonello, che tuttavia negò di essere coinvolto.

Guglielmo riacquistò lo stato e il regno e organizzò una rappresaglia memorabile, per cui venne soprannominato "il malo".

Ottenuto insieme agli altri signori il perdono del re, Bonello tornò a frequentare la corte di Palermo; finchè un giorno, a tradimento, considerandolo una serpe nel proprio seno, Guglielmo lo fece imprigionare: gli furono cavati gli occhi e tagliati i nervi. Morì tra atroci sofferenze.

E La spada? Tornò alla ribalta nel XIX secolo, quando la strada venne intitolata a Matteo Bonello, ma in realtà l’arma non è di epoca normanna.

Scrive Carmelo Piola in Dizionario delle strade di Palermo (1870): “Giuste le saggie osservazioni di un mio dotto amico la forma di quell’elsa non è affatto del XII secolo, sibbene dell’epoca spagnuola, sembrandogli verosimile che sia stata posta colà come simbolo della giurisdizione criminale degli Arcivescovi sul clero della Diocesi e fors’anche su qualche feudo portante esercizio di mero e misto imperio.”
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