STORIA E TRADIZIONI
Il più fedele compagno del principe di Salina: Bendicò, anima autentica del Gattopardo
La sua fine è uno dei momenti più memorabili della letteratura italiana. Finché il libro sarà letto, continuerà a esistere, inafferrabile come il destino della Sicilia

Il cane Bosco del Gattopardo
Bosco, un maestoso Levriero irlandese, è stato scelto per incarnare Bendicò, il fedele compagno del Principe di Salina. Eppure, nel romanzo originale, Bendicò è un Alano, un simbolo potente e inquietante, non un semplice animale domestico, ma un vero e proprio spettro della storia, testimone silenzioso e ineluttabile della decadenza di un’intera epoca.
Non è un dettaglio secondario: Bendicò non è un cane qualsiasi, ma il riflesso stesso della fine di un mondo. La sua figura emerge tra le pagine con un’irruenza che non lascia spazio all’indifferenza.
La sua vitalità esplosiva squarcia il rigido ritualismo della famiglia Salina, sconvolgendo la compostezza aristocratica con una carica di energia selvaggia.
Non il Principe, non Tancredi, non Angelica: è questo animale straordinario a incarnare, più di tutti, l’anima autentica de Il Gattopardo.
È lui che attraversa i saloni ormai spenti di Donnafugata, che scodinzola tra i rottami della nobiltà siciliana, che danza sulla sottile linea tra essere e apparire, tra moto e immobilità, tra la vita e la morte. Bendicò è caos e vitalità, ma è anche il presagio dell’inevitabile. Scuote le certezze, rompe gli equilibri, ma sa fiutare la fine prima ancora che essa si manifesti.
La sua presenza disturba, irrompe nella solennità con l’impeto di una forza incontrollabile: "Bendicò entrò raggiante, buttò per aria uno sgabello e si precipitò con foga sopra il Principe".
Quando si aggira per il giardino, non è un cane qualsiasi che gioca tra i fiori, ma un presagio, una metafora dell’inevitabile distruzione: "Quattordici garofani spezzati, mezza siepe divelta, una canaletta ostruita… Sembrava davvero un cristiano".
È l’ombra della rivoluzione, la dimostrazione che nulla si crea, tutto si sgretola. Ed è proprio questa sua natura ambivalente a renderlo una presenza così magnetica e inquietante.
La sua fine è uno dei momenti più memorabili della letteratura italiana. Morto e imbalsamato, Bendicò diventa un emblema grottesco dell’ostinata illusione aristocratica: la speranza di fissare per sempre ciò che il tempo ha già condannato. Ma la sorte non concede sconti. Il suo corpo, rigido e privo di vita, viene gettato via come un oggetto inutile.
"Durante il volo giù dalla finestra la sua forma si ricompose un istante: si sarebbe potuto vedere danzare nell’aria un quadrupede dai lunghi baffi e l’anteriore destro alzato sembrava imprecare. Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida".
E in quell’istante, tutto si compie: l’illusione della grandezza si dissolve nel nulla, il passato nobile si riduce a cenere, l’immobilità si frantuma sotto il peso della storia.
Ma la storia di Bendicò non è solo letteratura. Recentemente, lo storico Salvatore Savoia ha svelato un dettaglio incredibile: Bendicò non è un’invenzione, è realmente esistito. Il suo corpo fu imbalsamato nel 1882, affidato a Giuseppe Modena della Regia Università di Palermo per la somma di 81 lire.
Questa scoperta rende il confine tra realtà e finzione ancora più sottile, intrecciando il destino del romanzo con quello della famiglia Tomasi di Lampedusa, il cui declino si consumò in un’estenuante lite ereditaria durata 65 anni, fino a lasciare solo rovine e ricordi.
E così, mentre la storia e la letteratura si fondono nelle ricerche di studiosi e appassionati, Bendicò continua a vivere. Continua a vegliare, nel silenzio delle pagine ingiallite, nel cuore di chi legge.
Il suo scodinzolio rompe ancora oggi il silenzio di chi vuole credere che le cose possano davvero cambiare. La sua polvere è la polvere della Storia, della nobiltà che si dissolve, di un passato che si sgretola.
Ma finché il Gattopardo sarà letto, Bendicò continuerà a esistere, eterno e inafferrabile come il destino della Sicilia.
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