STORIA E TRADIZIONI
Il silenzio (e la vergogna) sulle ciociare di Sicilia: che cosa furono le "marocchinate"
Le "marocchinate" sono rimaste fino a oggi un tabù: ma c’è anche chi ha trovato il coraggio di raccontare e denunciare dopo 70 anni quelle terribili violenze
Una scena dal film "La Ciociara"
La memoria popolare ha spesso preferito barricarsi dietro il muro del silenzio, cercando di nascondere o dimenticare i crimini subiti e solo recentemente sono stati restituiti alla collettività episodi come quelli riportati dalla scrittrice e studiosa Marinella Fiume ne “Le ciociare di Capizzi” (2020) e dalla giornalista Ester Rizzo in “Il Labirinto delle perdute” (2021).
Il volume di Marinella Fiume è ambientato in un piccolo centro dei Nebrodi, durante la seconda guerra mondiale. Il riferimento del titolo è a “La Ciociara”, film diretto da Vittorio De Sica (e magistralmente interpretato da Sofia Loren, che vinse l’Oscar come migliore attrice protagonista), tratto dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia.
Rosetta non si riprenderà più dalle ferite inferte al corpo e alla mente. Marocchinate è il termine utilizzato per indicare le violenze inflitte alla popolazione (donne, bambini, uomini) dai goumiers, soldati marocchini, abilissimi e spietati, incorporati nell’esercito francese dal 1908 al 1956, a cui venne di fatto concesso il diritto di preda e saccheggio, in cambio dei loro servizi nell’avanzata dell’operazione Husky.
Abituati alla dura vita di montagna, al freddo e alla fame, i goumiers erano specializzati in raid notturni. Prediligevano l'uso di un lungo coltello (koumia) per assalire i nemici, che venivano sgozzati e spesso mutilati. Il passaggio dei goumiers in Italia fu accompagnato da un numero elevato di crimini di guerra, omicidi, saccheggi e stupri.
A Esperia (in provincia di Frosinone) cittadina che al tempo contava circa 2 500 abitanti, ben 700 subirono atti di violenza in occasione del passaggio delle truppe, e alcuni addirittura perirono.
Diversi referti medici dell'epoca riferirono che almeno un terzo delle donne violentate, per vergogna, preferì non denunciare. Facendo una valutazione complessiva delle violenze commesse dal Corpo di Spedizione Francese, che iniziò le proprie "attività" in Sicilia e le terminò alle porte di Firenze, possiamo affermare con certezza che vi fu un minimo di 60.000 donne stuprate, e ben 180.000 violenze carnali.
Innegabili furono le responsabilità dei vertici militari che avrebbero concesso a queste truppe, in modo più o meno esplicito, carta bianca per vincere una guerra non loro.
Marinella Fiume ha raccolto le testimonianze delle donne di Capizzi sugli stupri di massa, commessi come bottino di guerra in Sicilia, nella cittadina, durante lo sbarco degli alleati nell’estate del 1943.
Si tratta di fatti nascosti, di tragedie laceranti, percepite per sempre come vergogna e dolore da dimenticare. A parlare in prima persona sono stati spesso le nipoti e i nipoti di quelle donne considerate dai militari solo un trofeo di guerra; donne che non hanno mai denunciato e che si sono portate per anni il loro segreto come un pesante fardello sul cuore.
A Capizzi, in quei terribili mesi del ’43, dopo le prime aggressioni, i cittadini si rivolsero alle autorità militari delle truppe alleate, chiedendo un deciso intervento per porre fine alle violenze, ma i militari non ci provarono neppure a ristabilire la disciplina delle truppe coloniali.
I capitini allora - nonostante gli uomini più forti e giovani fossero impegnati al fronte – fecero nascondere le donne nei pagliai e nei casolari di campagna, si armarono e affrontarono corpo a corpo i brutali aggressori.
Diversi Gourmiers (almeno 15) furono uccisi - in alcuni casi non senza essere torturati - a colpi di bastone e con le roncole. Gli uomini, dunque, reagendo dopo reiterati casi di stupro, spinsero in qualche modo i Goumiers a desistere dalle loro incursioni.
Alcune donne violentate non riuscirono mai più a riprendersi cadendo nella depressione e nella follia; altre emigrarono; altre ancora - rimaste gravide – abortirono o partorirono in segreto e affidarono i figli agli istituti religiosi.
La violenza sessuale è un’arma per mortificare, intimidire e sottomettere il nemico: «Stuprare in guerra simbolicamente vuol dire marcare il territorio… Le "marocchinate" sono rimaste fino a oggi un tabù: ma c’è anche chi ha trovato il coraggio di raccontare e denunciare dopo 70 anni quelle violenze il lato rimosso delle guerre.
Esiste un continuum tra la violenza sessuale patita dalle donne in guerra e quella subita durante i periodi di pace a motivo della cultura patriarcale dominante». Afferma con orrore Marinella Fiume.
Nell’ambito delle ricerche sulle violenze di guerra, un altro importante contributo letterario è quello di Ester Rizzo, all’interno del volume "Il labirinto delle perdute".
Il libro è un’opera dedicata alla vita difficile delle donne, che nel corso dei secoli sono state spesso relegate ai margini , dimenticate, rinnegate, o addirittura cancellate dalla Storia e dal patriarcato: dalle streghe messe al rogo, fino alle vittime di violenza sessuale durante le guerre.
La giornalista fa riferimento al caso di alcune ragazze, vittime delle 'marocchinate', che arrivarono in Sicilia dal Centro Italia, dopo l’armistizio e che furono accolte in un convento a Termini Imerese (Palermo).
«Sono venuta a conoscenza di questa storia durante la stesura del libro” ci racconta Ester Rizzo, “Tra i tanti testi consultati, leggendo il volume di Simona La Rocca, "Stupri di guerra e violenza", ho trovato condensato in poche righe il caso di alcune giovanissime ragazze (molte erano minorenni) che avevano subito violenza dai “liberatori”, a Capua e ad Aversa, e che provate nel corpo e nell’anima, furono trasferite in Sicilia.
Ho voluto approfondire l’argomento e tramite uno storico di Termini, Agostino Moscato, sono venuta in contatto con il generale Mario Piraino, nipote del ginecologo dell’ospedale di Termini incaricato di curare le giovanissime vittime, per lesioni e malattie veneree. Il medico all’epoca fu molto discreto e poco fece trapelare su questa tremenda storia, ma qualcosa comunque raccontò per sommi capi ai familiari».
Ester Rizzo si è interrogata anche sul perché venne scelta proprio la zona di Termini Imerese e in seguito ad altre ricerche è riuscita a scoprire che“ a Buonfornello, era presente un aeroporto militare, in cui operava un corpo di infermiere volontarie; a Cefalù, vicino a Termini, c'era il piu' grande deposito americano di penicillina (usata per curare per le malattie veneree) e a Termini c'era un reparto di ginecologia molto avanzato... Le ragazze giungevano in Sicilia via mare o con aerei militari e dopo essere state curate, venivano portate nel convento (…) Nel convento di San Pietro (che oggi non esiste più) le suore diedero alle giovani campane un'istruzione di base, insegnando loro a leggere e scrivere e qualche nozione di economia domestica o di ricamo.
La struttura religiosa era finanziata da alcuni cittadini di Termini Imerese emigrati negli Stati Uniti e le suore si prodigarono proprio per far sposare per procura a questi emigrati italiani alcune delle vittime: andare in America dava loro la possibilità ricostruirsi una vita.
«È improbabile che chi le sposava non sapesse di questa terribile "storia", ma a pesare era allora soprattutto il giudizio della gente e lontani dal paesino dove tutti si conoscevano e le voci correvano, era possibile gettarsi il passato alle spalle e ricominciare a vivere.” – racconta Ester Rizzo –.
«Alcune ragazze restarono invece a Termini Imerese: di loro non sappiamo nulla ed è meglio lasciarle in pace, non riportarne i nomi, perché il dolore, la vergogna, l’umiliazione sono ancora fortissimi, i fatti sono ancora troppo recenti. Non è giusto pur di fare uno scoop andare a riaprire vecchie ferite interiori. C’è un limite morale che il giornalista si deve porre».
«Tuttavia - conclude la scrittrice - voglio sottolineare che non è più ammissibile continuare a tollerare le sistematiche violenze di guerra, gli stupri che continuano ad essere perpetrati, liquidandoli come incidenti di percorso: questi atti ignobili, quale che sia la causa psicologica, sociale o culturale, creano una serie di fratture profondissime e mai rimarginabili, nelle vittime e nella comunità».
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