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Il suo assassino era alla festa dei Florio: la tragica fine della principessa (triste) di Sant'Elia

La contessa Giulia Trigona rientrava di diritto nell'elite palermitana, per nascita e per matrimonio, ma era proprio quest'ultimo il problema che la intristiva tanto

Giulia Trigona

Nella calda serata dell'11 agosto 1909, Villa Igiea era sfavillante, come sempre. Le luci della festa riverberavano sul mare e l'elegante hotel era affollato di invitati, uno più altolocato dell'altro.

La padrona di casa, donna Franca Florio, sapeva bene chi invitare e chi no, alle sue occasioni mondane.

Una che riceveva sempre l'ambito invito era la contessa Giulia Trigona, la giovane, bellissima (e tristissima) moglie di Romualdo Trigona, principe di Sant'Elia.

La quarta figlia della principessa Giovanna Filangeri di Cutò e del conte Lucio Mastrogiovanni Tasca rientrava di diritto nell'elite palermitana, per nascita e per matrimonio, ma era proprio quest'ultimo il problema che la intristiva.

Il principe Romualdo, che pure l'aveva amata per molti anni e resa madre di due bambine, da qualche tempo aveva dimenticato i suoi doveri coniugali e, seguendo il più banale dei cliché, aveva iniziato una relazione con un'attrice.
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La cosa era divenuta di dominio pubblico e Giulia ci soffriva moltissimo. Inutilmente lo aveva affrontato, con blandizie e minacce aveva cercato di riportarlo a sé. Al principio del Novecento, gli uomini si sentivano in diritto di coltivare le relazioni che desideravano, mentre le mogli dovevano restare a casa e fare finta di niente.

Per Giulia, la festa dei Florio doveva essere un modo di svagarsi un po'. Quella sera, a Villa Igiea, c'era anche Vincenzo Paternò del Cugno.

La lunghezza del nome tradiva nobili natali, ma il suo patrimonio non era all'altezza della posizione che il giovane avrebbe ambito a ricoprire. Da una parte perché le miniere di zolfo della famiglia non erano sufficientemente produttive, dall'altra perché Vincenzo dilapidava ogni risorsa scommettendo sui cavalli e ai tavoli da gioco.

Giulia non ne aveva idea. Non vide "un farfallone attratto dalla vivida luce della lanterna dei Florio", come anni dopo lo definì Giuseppe Tomasi di Lampedusa (che di Giulia era nipote, essendo figlio della sorella Beatrice), ma un bel giovane, in divisa da tenente di cavalleria, che la subbissava di complimenti e galanterie e la guardava con occhi di fuoco.

Talmente infuocati che, dopo pochissimo tempo, i due avviarono una relazione appassionata e travolgente.

Dimentica di tutto, anche dei suoi doveri a corte (la regina Elena l'aveva nominata dama di compagnia già nel 1895, all'indomani del matrimonio con Romualdo, a sua volta gentiluomo di corte), la bella Giulia non perdeva occasione per incontrarsi con il suo focoso amante.

Anche troppo focoso, a dire il vero. Vincenzo era un uomo violento e possessivo, capace di accendersi per un nonnulla, tormentato dalla gelosia.

All'inizio della loro storia, però, Giulia non se ne avvedeva – o non voleva avvedersene – e, anzi, si accollava anche di pagare i debiti dell'amante. Dopo qualche tempo, tuttavia, la relazione trapelò, anche perché Giulia, forse per rivalsa nei confronti del marito fedifrago, non faceva granché per nasconderla.

Inoltre, le loro litigate furibonde non passavano inosservate. Col passare del tempo, infatti, il carattere violento di Vincenzo e le sue scenate di gelosia, avevano cominciato a stancare la giovane contessa, che di certo non le mandava a dire.

A Palermo, e non solo, lo scandalo fu enorme. Romualdo, avvisato delle corna da velenose lettere anonime, cacciò di casa la moglie, salvo farla rientrare dopo un po' a seguito delle insistenti pressioni della famiglia.

La situazione, considerando il calibro dei personaggi coinvolti, era intollerabile e alla fine, siamo nel 1911, intervenne addirittura la regina, convocando la coppia al Quirinale per tentare una riconciliazione.

Non sappiamo se fu la regale iniziativa a convincere Giulia, sta di fatto che la contessa decise di troncare la relazione e, forse, di mollare anche il marito, come farebbe sospetttare la decisione di vendere un feudo per una somma consistente, sufficiente a garantirle l'indipendenza economica.

Ma Vincenzo era come impazzito e non riusciva a rassegnarsi. Tanto fece e tanto disse che alla fine convinse la giovane a concedergli un ultimo incontro. Per restituirle le lettere che si erano scambiati negli ultimi due anni, fu la scusa e, evidentemente, la cosa a Giulia interessava... ma ci torneremo più avanti.

Il 2 marzo 1911 i due si diedero appuntamento in un sordido alberghetto alle spalle della stazione Termini. Vincenzo arrivò per primo, prese la camera n.8 e rimase ad aspettare. Quando, poco dopo, la vide scendere da un taxi, le andò incontro e salirono insieme.

Al Museo Criminologico di Roma, una bacheca racchiude i “corpi di reato” del caso Trigona Paternò: una ciocca di capelli con delle forcine, un coltellaccio, uno straccio insanguinato e un pacchetto di fiammiferi.

Secondo la ricostruzione degli inquirenti, poco dopo essere entrata nella stanza, Giulia Trigona fu brutalmente accoltellata dal suo amante, che non esitò a tagliarle la gola. Poi l'uomo estrasse una pistola e si sparò alla tempia, rimanendo ferito. Il personale dell'albergo li trovò entrambi in un lago di sangue, lui era ancora vivo.

Nella stanza c'erano anche le famose lettere, un centinaio di missive che furono consegnate direttamente al presidente del consiglio Giovanni Giolitti e, da questi, al re Vittorio Emanuele III. Non sappiamo cosa ci fosse scritto davvero nelle lettere e non lo sapremo mai, visto che sono state quasi tutte distrutte.

Una delle ipotesi è che vi fossero informazioni che Giulia otteneva grazie alla sua presenza a corte, che Vincenzo poi utilizzava per ricattare i diretti interessati e spillargli dei soldi.

Dopo essere stato curato, Vincenzo Paternò venne processato e condannato all’ergastolo. Nel 1942, dopo avere scontato trent'anni, Benito Mussolini si interessò per fargli avere la grazia. Si dice che fosse entrato in possesso delle informazioni contenute nelle lettere, riferitegli da un compagno di cella di Vincenzo, e che gli fossero risultate molto utili, tanto da spingerlo a perorare la causa di Paternò presso il re.

L'assassino di Giulia tornò a casa, sposò la propria domestica e si spense serenamente nel 1949. La povera contessa e il suo desiderio di libertà e di amore, la sua lotta inconsapevole contro le imposizioni e le ipocrisie del suo tempo rimasero a lungo nella memoria, tanto che fu anche grazie a questo omicidio che si accese il dibattito sull'intoccabilità del matrimonio.

Ma ci vollero altri sessant'anni, prima che il divorzio venisse inserito nel nostro ordinamento e i femminicidi, purtroppo, sono sempre di triste attualità.
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