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La malaria, gli insulti e il famoso stemma: perché i Florio si chiamano "Leoni di Sicilia"

Sulla scia della celebre serie tv appena uscita, in molti si chiedono come mai le sorti della famiglia Florio sono collegate alla figura di un leone. Ecco la (vera) storia

Aurelio Sanguinetti
Esperto di scienze naturali
  • 1 novembre 2023

Il Leone simbolo dei Florio davanti alla tomba della famiglia, nel cimitero di Santa Maria di Gesù, a Palermo

In queste settimane sta uscendo l’attesa serie I leoni di Sicilia, tratta dall’opera di Stefania Auci e dall’avventurosa vita dei Florio, fra le più importanti famiglie imprenditoriali siciliane di fine e inizio Ottocento.

Una produzione molto attesa, che apre la stagione seriale autunnale italiana, che tra l’altro dovrebbe riempirsi nei prossimi mesi anche con altre serie importanti ispirate alla storia della nostra isola, tra cui “Il Gattopardo” di Netflix, che dovrebbe fornire una risposta mediatica a questa produzione marchiata Disney Plus.

Al di là però del successo che molto probabilmente vivrà questa serie televisiva, sono stati tuttavia in molti negli scorsi giorni a chiedersi come mai all’epoca Vincenzo Florio – figlio e nipote dei fratelli Paolo e Ignazio, che decisero di aprire un’impresa in via dei Materassai, a Palermo, emigrando da Bagnara Calabra – decise di ricollegare le sorti della sua famiglia alla figura di un leone.
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Un esemplare inoltre molto peculiare, rispetto le classiche rappresentazioni artistiche che avevano ottenuto i grossi felini fino a quel tempo. Il leone presente all’interno dello stemma di famiglia Florio infatti, noto agli storici dell’arte e dell’imprenditoria italiana come Leo bibens, è febbricitante ed è intento ad abbeverarsi da una sorgente naturale di acqua fresca, vicina a degli alberi di china, raffigurazione di un rinnovato benessere dai malesseri quotidiani.

Una rappresentazione davvero unica nel suo genere, che in un modo spingeva i cittadini dell’epoca a riconoscere i Florio come facente parte della comunità attiva della città, ma che dall’altra cercava anche di legarsi alle tradizioni araldiche nobiliari del medioevo, in un paese ancora governato da aristocratici che non vedevano di buon occhio una borghesia capace di arricchirsi più di loro.

Tra l’altro è possibile ancora trovare il simbolo dei Florio in alcune antiche insegne presenti all’interno della città di Palermo - tra cui quella conservata presso il grande baglio dei Quattro pizzi all’Arenella o nelle mura di alcune vie cittadine – a testimonianza del fatto che fossero famosi in tutta la regione.

Secondo tuttavia le informazioni ufficiali che risalgono all’epoca, la scelta di un leone febbricitante come simbolo della loro casata è stata eseguita un po’ come ripicca nei confronti dei loro compepitor commerciali, agli inizi della loro lunga storia imprenditoriale, che risale ai primi dell’Ottocento.

In quel periodo infatti i Florio non venivano molto accettati da parte di altri ricchi abitanti della Kalsa, che cominciarono a definirli come a degli immigrati arricchiti o a delle “fiere ammaestrate”, in grado di rubare alcune fette dell’allora florido mercato regionale, già in mano ad alcuni borghesi e a diversi aristocratici locali da molto tempo.

La loro sorte tuttavia cambiò completamente quando pochi anni prima della morte di Paolo, avvenuta nel 1807, sotto la spinta di Vincenzo e di suo zio Ignazio la famiglia cominciò a offrire ai suoi clienti in esclusiva un importante prodotto, ovvero la vendita del chinino, una delle sostanze più rare e importanti dell’epoca.

Esso era infatti l’unico farmaco efficace del periodo in grado di abbassare le febbri provocate dalla malaria, allora molto più mortale di ora. E per una regione come quella siciliana, in cui la malaria era endemica e distribuita storicamente in tutte le province, il disporre del commercio esclusivo del chinino divenne sostanziale, per proiettare i Florio all’interno della ristretta lista di famiglie benestanti in grado di esercitare il potere politico, economico e sociale nella Palermo dell’epoca.

All’acquisizione delle nuove disponibilità economiche e della sempre crescente stima dei loro clienti, i Florio così decisero di usare come strumento pubblicitario alcuni dei vecchi “insulti” che avevano ricevuto da parte di altri imprenditori locali, scegliendo di inserire nel loro stemma i riferimenti iconografici ai due principali simboli del loro potere crescente: gli alberi di china, da cui si estraeva il farmaco di cui godeva tutta la città, e la coraggiosa resilienza della loro famiglia, raffigurata sotto la forma di un leone che per quanto stanco affrontava le difficoltà, scegliendo oculatamente dove bere, per guarire dalla febbre.

In questo modo Vincenzo Florio riuscì ad usare così i riferimenti spregiativi alle fiere che aveva accompagnato la sua famiglia dal loro primo sbarco a Palermo, avvenuto fra l’anno 1800 e il 1802, delineando quali fossero le ragioni del loro esplosivo successo commerciale.

Da allora il simbolo del Leo bibens divenne una delle più importanti mascotte commerciali utilizzate al mondo, venendo utilizzato anche dalle successive generazioni dei Florio - ed in particolare da Ignazio Florio Junior – per promuovere qualsiasi tipologia di prodotto che usciva dalle loro fabbriche: dal Marsala ai farmaci contenenti il chinino, dallo scatolame di tonno in scatola alle gare automobilistiche per poi finire alle compagnie navali con cui i Florio, sul finire del Diciannovesimo secolo, riuscirono a proporre per la prima volta nella storia le crociere, nuovo strumento di esplorazione del mondo e sintomo stesso di una nuova concezione culturale ed effettiva del concetto del viaggio.

Il leone sofferente negli anni così divenne il simbolo stesso di un impero economico che crollò definitivamente solo al termine della Belle Époque, mutando paradossalmente invece più tardi nel sinonimo di una Sicilia inefficiente e attaccata morbosamente alle sue tradizioni, ancora impreparata ad affrontare le brutture del fascismo, delle conseguenze dell’autarchia e dei cambi di gusti del pubblico.

Per quanto infatti il Marsala, il chinino e le scatolette di tonno permisero alla famiglia Florio di trovare la strada per raggiungere il successo nel corso dell’Ottocento, questi prodotti furono commercialmente considerati stantii e poco apprezzati dalle nuove giovani popolazioni consumistiche formatisi in Europa e negli Stati Uniti, di seguito alla fine della Prima Guerra mondiale. E non sapendosi più adattare ai gusti del pubblico, il destino imprenditoriale di questa famiglia si realizzò nel corso di pochi anni, parallelamente alla realizzazione di alcuni cattivi investimenti che oggi noi tutti conosciamo come il fiore ad occhiello dell’architettura Liberty siciliana.

Stiamo parlando ovviamente dell’Hotel Villa Igea costruito vicino al porto di acquasanta, delle varie loro abitazioni edificate a Palermo e del Villino Florio a Roma.
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