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Il pugno allo stomaco dei racconti di Sonja

  • 12 novembre 2006

Diciassette agosto duemilacinque, Sonja nasce tra le stanze elettroniche di un blog musicale (http://blog.rockit.it/sonja). Sonja, con la sua identità rubata al quadro di Christian Schad, nom de plume di Barbara Ottaviani, medico-scrittrice o viceversa, che viviseziona le intimità umane, anche le più bieche, solo per raccontare istantanee che diventano settantadue pagine di un libro e quarantadue racconti in parte già pubblicati sul web (www.bloomnet.org/riot/;www.speakers.diablogando.it).

"I cortoracconti di Sonja" (Navarra Editore, 8 euro) non sono letteratura erotica, neppure letteratura, ma cortoracconti, battesimo che la Ottaviani concede alla sua scrittura celebrata inizialmente per il popolo del World Wide Web, da lettura veloce, immagini istintive e sensazioni tattili. Un diario divenuto libro, su cui sono appuntate pulsioni e pensieri infestati da una umanità “bestiale”, sregolata e ostentata. L'ostentazione è la chiave di lettura, è il “sempre e comunque” di questo libro, presente anche nelle parole della scrittrice durante la presentazione della sua carta-creatura, che sbatte contro il pubblico nell'intento di edificare una delle tante facies à la Santacroce.
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È, infatti, un genere già vissuto dagli intenti commerciali che stanno approdando all'editoria, un breviario da viaggio breve. L’autrice, indossando la maschera di Sonja, asessuata, amorfa, non battezzata, si sdoppia nelle pagine fino a scomparire tra ambienti asettici e personaggi ambigui tratteggiati appena nella corrispondenza di sensi e provocazioni, scorrendo quotidianità ammaestrate a visioni da spot che arrivano al lettore turbandolo, non per le sue affezioni moralistiche, come sarebbe facilmente titolabile, ma per la mancanza di strutturazione del testo; poi ritorna all'identità della scrittrice, impegnata nelle fiere di presentazione del libro, gesticolando attenta i moventi della sua scrittura tra slogan: «si scrive per essere letti», scagliandosi contro le definizioni erotizzanti sul suo libro che fissa come solo «un pugno allo stomaco, creato per l'esigenza di dire senza mezzi termini».

Eppure sfogliando le pagine, sin dai primi racconti, si assiste a continui rimandi erotici sfibrati, autopunitivi, a volte indignanti (violenze minorili e sevizie di guerra), pur riconoscendo alle parole il potere delle immagini ci si domanda: è proprio necessario rendere la brutalità umana se non nell'intento documentaristico? La scrittura si muove vivendo ossessioni, avvilimenti, frustrazioni perchè la donna descritta è sempre “puttana” o sottomessa, serva di violenze o di silenzi appuntati in post-it gialli lasciati poi sulla scena di un delitto non perfetto, dalla prosa grezza che non da ad intendere verso cosa si muova. Ma il libro ha due stagioni, quelle più commerciali e silenziose sopra descritte e quelle più corpose seminate nell'altra metà del testo o dimenticate tra le stanze del blog, che alcuni lettori rischiano di non abitare, abbandonando la lettura sin dall'inizio, perdendo quegli scorci che aprono finestre molto più grandi tra le righe della scrittrice in cui si percepisce realmente lo spessore della sua penna.

Non si è prelati intenti a crocifiggere parole e forse è proprio questo a cui l'autrice ha puntato: far credere che il libro sia un vessillo contro le pruderie moralistiche, che lo si voglia additare e censurare, ma noi siamo generazione attenta alle perle di Lawrence, Miller, Nin, Mishima, e della più contemporanea Una Chi, capaci di sgranare i rosari del non detto senza zittire la curiosità del lettore o sedarla con rimandi troppo espliciti. Ogni libro è segno di libertà, è un’esistenza, a volte storpia a volte costipata ma che comunque deve venire al mondo. Il libro di Barbara Ottaviani è un’esistenza dovuta alla sua voglia di dire, di celebrare la propria immaginazione fervida o lasciva (al lettore il dire), ma appare talora incompleta o forzata per esigenze di “tiratura” che riportano a quel movente indagato, così da scorgerlo anche nella sua dedica: «a me stessa», dalla quale forse trapela l’esclusione del lettore.
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