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Quando il non recitare comunica

  • 22 febbraio 2005

Un detto latino recita “in medio stat virtus”, la verità si trova al centro, e per dirlo i nostri avi ci sono buone ragioni per crederlo. Il ricorso all’illustre lingua morta (che ci dimostra quanto questa sia più viva che mai, nonostante le riforme morattiane incombenti) è presto detto. Osservando quel che il nuovo teatro italiano ci offre, troviamo due differenti tendenze: da un lato una ricerca continua di effetti, esasperato eccesso creativo alla ricerca dello stupore perpetuo, dall’altro l’assoluta mancanza di ogni valore aggiunto dato dalla recitazione, anzi una negazione di quest’ultima con l’affermazione della parola nella sua nudità, nulla più del suo suono senza alcuna intonazione. Questo è quanto viene proposto dalla regia del giovane Massimiliano Civica che, con la compagnia La corte in viaggio di Roma, ha curato un’originalissima rielaborazione di tre storie, prese dalla vasta produzione teatrale dell’unica compagnia italiana attiva agli inizi del secolo scorso nel cosiddetto teatro grandguignolesco, la Compagnia Sainati (fondata da Alfredo Sainati e dalla moglie Bella Storace). Lo spettacolo di cui stiamo parlando è “Grand Guignol - Tre storie: L’artiglio- Passa la ronda – il Ritorno”, con Andrea Cosentino, Mirko Feliziani, Antonio Tagliarini, Daniele Timpano, scene di Manuel Malesani, visto al teatro Libero di Palermo dal 25 al 29 gennaio scorsi.

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Reduce, con giudizi lusinghieri da tutti i più importanti festival del teatro di ricerca e d’innovazione, il lavoro vede sulla scena quattro giovani attori che, nei loro abiti quotidiani, interpretano i ruoli delle protagoniste delle tre tristi vicende, che le vedono ora vittime, ora carnefici. La loro recitazione è però alquanto singolare, non essendovi alcuna partecipazione emotiva, ma anzi un gelido alternarsi delle battute con totale distacco. I ragazzi, bravi nella monotonia progettuale delle loro voci, sembrano intimidire il pubblico, forse anche per i movimenti scenici ridotti al minimo, riuscendo a suggerire un sentimento di rivalsa femminile. Data la natura del lavoro, è inevitabile che l’attenzione sulla scena, man mano che si raccontano le vicende (una moglie che lascia morire in un incidente domestico il marito, il triste amore di una povera carcerata per una guardia, una moglie impazzita che aspetta il marito morto) vada scemando e si arrivi alla fine dello spettacolo apprezzandone la brevità. Di sicuro uno spettacolo originale (e assolutamente piatto) che ci suggerisce una considerazione: se è con il “non dare” e il “non recitare” che si riesce a comunicare, allora ci sembra proprio che il teatro sia destinato ad una brutta fine. Speriamo che non sia così e comunque, “in medio stat virtus”.

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