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Per lei tutti perdevano la testa: la vita (scandalosa) della bella principessa di Butera

Chissà quante volte siete passati davanti alla palazzina Butera-Wilding a Palermo senza sapere di chi fosse. Vi raccontiamo la vita della sua proprietaria, Caterina Branciforti

Maria Oliveri
Storica, saggista e operatrice culturale
  • 6 marzo 2022

Caterina Branciforti, busto in marmo di Bertel Thorvaldsen (1816)

Dal noioso matrimonio combinato col cugino Nicolò alla vita da reclusa in un monastero; dagli intrighi di corte, alle delizie del villino all’Olivuzza.

Caterina Branciforti, principessa di Butera sembra quasi l’eroina di un romanzo e incarna quella libertà culturale, sociale e perfino sessuale di cui godevano le dame aristocratiche nel Settecento.

Alta e dall’incedere regale; con una testa “scultorea” resa meravigliosa dai ricchissimi gioielli, aveva occhi da gazzella, capelli corvini sempre sistemati con cura, naso greco, labbra imbronciate che scoprivano denti bianchi come l’avorio.

Era stata educata in collegio in Toscana e il suo italiano era puro e incantava l’orecchio: la principessa proveniva da un casato dalle smisurate ricchezze, nel quale i matrimoni combinati tra cugini o comunque tra parenti prossimi, erano una strategia efficace per mantenere ed accrescere il patrimonio familiare.

Era nata nel 1768 a Palermo, da Ferdinanda Reggio e Moncada e da Ercole Michele Branciforti e Pignatelli, Gentiluomo di Camera di Sua Maestà Carlo III di Borbone, personaggio di primo piano nell’ambiente politico del tempo.
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Secondo accordi stipulati dai genitori, aveva sposato il cugino Nicolò Placido III Branciforti e Valguarnera, principe di Scordia e Leonforte e nel 1789 era nata quella che sarebbe stata l’unica figlia della coppia, Stefania Branciforti, destinata anche lei a sposare nel 1805 un cugino, Giuseppe Lanza e Branciforti.

Alla giovane, colta e bellissima Caterina andava stretto quel matrimonio progettato a tavolino con Nicolò Placido, marito poco attraente e poco brillante, che sembrava ancora più scialbo in confronto alla vivace mogliettina. L’avvenenza della principessa era infatti oggetto di ammirazione, da parte di intellettuali e letterati, anche al di fuori dell’isola.

Di lei scrivevano Joseph Hager lodandone la persona e l’ingegno ed Edward Blaquière che la ricordava come la «Venere di Sicilia», dai modi affabili e accattivanti, William Henry Thompson che affermava “che venivano da ogni parte per ammirare la sua bellezza” e Michel Palmieri de Miccichè che dichiarava di non aver mai visto nessuna donna la cui bellezza potesse essere paragonata in alcun modo a quella della principessa.

Solo il poeta Giovanni Meli, pur decantando le doti della principessa, lustro della terra di Sicilia, non poteva fare a meno di fare un accenno alla “dubbia moralità” di Caterina, che dopo la nascita della figlia, aveva portato avanti per un anno una tresca con un nobile spagnolo che risiedeva a Napoli.

Il marito, venuto a conoscenza del tradimento, aveva deciso di far uccidere i due amanti ma lo spagnolo, avvertito del pericolo da una domestica, si era dato precipitosamente alla fuga e Caterina aveva preferito andare a rinchiudersi in un noto monastero di Palermo, dove, nonostante i ripetuti tentativi di Nicolò Placido di ricondurla al palazzo, aveva preferito rimanere, volontariamente reclusa e aveva vissuto in convento per 7 lunghissimi anni, fino alla morte del marito.

Lo stato di vedovanza ben si addiceva a Caterina, che riacquistata finalmente la libertà, tornava a vivere nel 1806 e far parlar di sé. Venne ammessa alla corte borbonica (che si era rifugiata per la seconda volta a Palermo sotto la minaccia francese) come Dama della Regina Maria Carolina.

Si mormorava che a corte, oltre alla dispotica regina, comandassero le quattro "cortigiane" del sovrano Ferdinando: la “favorita” Lucia Migliaccio, duchessa di Floridia; Giovanna del Bosco dei principi di Belvedere, moglie del principe di Paternò; Vittoria Naselli dei principi di Aragona, vedova del principe di Linguaglossa e Caterina Branciforti principessa di Butera vedova del principe di Scordia.

Si dice inoltre che Caterina fosse una spia al servizio della corona, per carpire preziose informazioni agli inglesi. In quegli anni infatti quello che doveva essere un protettorato britannico dell’isola si era trasformato ben presto in una vera e propria occupazione militare sotto il ministro Lord William Bentinck.

Ercole Michele Branciforti, per non perdere il suo ruolo di potere aveva appoggiato Bentinck e aveva spalancato agli inglesi le porte del suo palazzo dove sua figlia Caterina continuava la sua vita di fasti e mieteva innumerevoli conquiste, tra personaggi di rango della marina britannica.

Nel 1812 però Caterina conobbe il giovane e affascinate Georg Wilding, un militare tedesco di 22 anni più giovane di lei. Wilding era giunto in Sicilia con l’Ottavo Battaglione della King’s German Legion (KGL), un’unità dell’esercito britannico a seguito di Lord Bentick, formata da soldati mercenari di origine tedesca.

La principessa, nonostante i suoi 46 anni d’età, perse letteralmente la testa per quell’ufficiale straniero, senza alcun titolo e per di più assai più giovane di lei: cominciò a seguirlo, come una serva fedele, attendandosi fuori delle caserme dove egli viveva e il fatto destava enorme scandalo.

Quando nel 1814 si vociferò di uno scioglimento della KGL la principessa si decise a sposare Wilding, sebbene fosse consapevole che le nozze sarebbero state senz’altro oggetto di riprovazione sociale e si rivolse a Lord Bentick, per chiedere di intercedere presso il padre, contrario a questo matrimonio, rassicurandolo sul fatto che, data la sua “decrepitezza” difficilmente avrebbe potuto ormai avere figli.

La nascita di un eventuale erede maschio, infatti, avrebbe sconvolto i piani familiari che prevedevano la trasmissione di tutti beni dei Branciforti a Stefania e ai Lanza di Trabia.

La coppia fu unita in matrimonio il 22 febbraio 1814 dal cappellano militare luterano e Wilding si congedò dalla KGL per passare alle dirette dipendenze di re Ferdinando. Ottenne di poter utilizzare il titolo di principe, ma non fu mai effettivamente nominato principe di Butera, fu semplicemente «principe» di Radalì, dopo la morte di Caterina.

Il suo ritratto venne appeso nel palazzo Butera, con la seguente didascalia: “La bontà del suo cuore gli guadagnò l’onore di diventare il marito della principessa Butera”.

La coppia si dedicò ad ampliare la tenuta nella contrada dell’Olivuzza: una villa, «piccola e abbastanza fuori mano», con l’immancabile “laghetto dei cigni” e un grandioso “giardino di delizie” all’inglese, ricco di viali alberati, delimitati da alti arbusti di bossi, tassi e siepi, che conducevano ad una montagnola artificiale con grotta, su cui svettava un coffee house in guisa di tempietto di stile ionico, con splendida vista sul mare.

Wilding, appassionato di botanica, fece impiantare nuove specie straniere e specie rare, tra cui l’agave willdingii che porta il suo nome e che oggi si coltiva all’Orto Botanico di Palermo. La principessa, inoltre, aveva fatto sistemare un corpo interno della villa in “stile alla cinese”, seguendo il modello della Casina Cinese fatta costruire nel 1799 dal re Ferdinando III nel parco della Favorita.

A causa della propensione della coppia a dedicarsi alla vita di corte piuttosto che alla gestione degli ex feudi, la situazione economica della famiglia, non era rosea e per saldare i debiti Caterina fu costretta a vendere quasi tutti gli ex feudi. Wilding decise allora di intraprendere delle iniziative imprenditoriali.

Istituì un servizio postale pubblico (il primo della penisola) con battelli adibiti al trasporto di passeggeri tra Napoli e Palermo; ottenne una concessione per scavare miniere di piombo argentifero in Sicilia e Calabria; provò ad istituire una scuderia per l’allevamento di cavalli purosangue inglesi, impiantando una razza dal nome Butera.

Nonostante le incertezze economiche e l’inesorabile avanzare degli anni, la principessa di Butera manteneva la sua avvenenza e poteva sempre contare su un nutrito numero di ammiratori.

Il cavalier Giuseppe Francioni Vespoli la definiva «la più venusta e garbata dama che siasi al mondo veduta, quella che in sé riunisce in avvenenti spoglie, bellissim’alma» mentre l’archeologo e illustratore inglese sir William Gell, la riteneva «once the handsomest woman in Italy, and yet magnificent».

Caterina non rinunciava alla vita mondana a Roma e Napoli e chiudeva un occhio, a volte anche due, sulle infedeltà e le assenze del marito.

Nel 1825, intanto, era morto re Ferdinando I, ma Wilding era riuscito a entrare nelle grazie anche dell’erede Ferdinando II. Nel 1830 fu nominato inviato straordinario del Regno delle Due Sicilie a Vienna ed era lì che si trovava quando sopraggiunse inaspettata la morte di Caterina, avvenuta a Napoli il 3 Febbraio 1831, per morbillo. La principessa aveva 63 anni.

Caterina lasciò per testamento all’amato Wilding la tenuta dell’Olivuzza, le ex baronie di Radalì e il castello di Falconara, mentre i restanti beni andarono alla figlia Stefania Branciforti.

Wilding morirà dieci anni dopo, il 6 settembre 1841 e come da sua volontà sarà seppellito nel Cimitero del Giardino di Hannover (dove erano le spoglie della madre). Il suo sarcofago marmoreo è oggi considerato monumento nazionale dello Stato tedesco.

Fonti: ("Il piano dell'Olivuzza di Palermo" e "Fasti e pene di 2 principesse : Caterina Branciforti principessa di Butera e Varvara Petrovna principessa Shachovskaja" di E. Continella in Academia.edu).
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