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Si sentiva Brad Pitt ma era un "surciddu": ecco il palermitano del Vespro anti spagnolo

C'è sempre una donna e la difesa che un innamorato prende nei suoi confronti nei conflitti anti dominazione che hanno fatto la storia di Palermo: come in questo caso

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 1 maggio 2020

Drouet trafitto dalla spada viene ucciso, da I Vespri siciliani di Francesco Hayez

Era l’anno 1511, precisamente agosto. Palermo era un po’ diversa da come la conosciamo: la via Maqueda non esisteva ancora, il kemonia - chiamato fiume del “malotempo”, perché straripava spesso dopo le pioggie - non era stato ancora sotterrato e lo stesso vale anche per il Papireto - anche se sovente era utilizzato come discarica dai palermitani -. Il quartiere della Conceria non era stato ancora distrutto e la bella Santa Rosalia non era ancora la patrona della nostra città ma c’erano Agata, Cristina, Ninfa e Oliva: prova che i maschi a Palermo si sono sempre allattariati ma hanno comandato sempre le donne (infatti in un angolino c’era pure quel mischino di San Benedetto il moro, anche se qualche decennio dopo, che doveva stare zitto e muto, senza fiatare e si piantava bello tranquillo gli alberi a Santa Maria di Gesù).

È un periodo strano questo, un periodo di transizione, se si vuole, tra la fine del medioevo e il primo rinascimento. Erano passati solo vent’anni dell’editto del 1492 emanato da Isabella e Ferdinando, reali di spagna, che sanciva la cacciata degli ebrei e dunque lo smantellamento del quartiere in cui vivevano: la Giudecca. Le cose erano due: o si convertivano oppure facevano armi e bagagli e si andavano a trovare un’altra bella terra in cui vivere, dato per scontato che quello che riuscivano a portarsi se lo portavano, il resto “si potevano stujare il musso”.
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Per questo motivo, e non è difficile arrivarci, quelli poveri andarono a tentare fortuna altrove (come i nostri nonni in America) perché tanto non avevano niente da perdere, mentre quelli ricchi si erano convertiti al cristianesimo, anche se di nascosto continuavano a professare la loro religione, perché non avevano intenzione di perdere proprietà e attività commerciali.

E siccome piove sempre sul bagnato, non contenti della cacciata degli ebrei, cresce nel grembo della Spagna il Tribunale della maledettissima Inquisizione a cui capo c’è il terribile Torquemada. Stu Tommasino (Tòmas) Torquemada era corto, brutto, malo parato (assomigliava un po’ a Pippo Franco ma più basso) e aveva un carattere di quelli che era meglio cambiare strada quando lo si incontrava. Un giorno che stava confessando il re, perché Tommasino era anche il confessore delle reali maestà, gli disse: «Ferdinà, ma a te ti pare normale che stu Santo Tribunale pigliò in tutti i posti e in Sicilia non vuole prendere come vuole il Signore!?».

Appena il re sentì “Come vuole il Signore”, gli vennero le quaranate e decise che Tommasino avrebbe avuto pieni poteri su sta questione. Come fu come non fu, zitti zitti, gli inquisitori riuscirono a prendere piede a Palermo e un po’ in tutta la Sicilia, andando a stare prima in case private, ma sempre belle perché bere e mangiare piaceva pure a loro, e poi si fotterono i meglio palazzi di tutta la città compresi: palazzo Reale, palazzo Chiaramonte e il Castello a mare.

Erano scaltri questi padri inquisitori, che perlopiù erano Domenicani, e capirono che gli ebrei fino a quando fossero stati ebrei non commettevano alcun peccato, appena però diventavano cristiani, essendo soggetti al loro tribunale e sotto la legge di Dio, allora gli potevano fare barba e capelli; e, infatti, ogni scusa fu buona per accusarli di giudaismo e fottersi pure le proprietà di quelli ricchi che erano rimasti e che, un po’ come i nemici di Robin Hood, perdevano tutte cose e diventavano più poveri di quelli scappati.

Ma torniamo nel 1511. Il santo tribunale ha già preso potere, anche se non è ancora al suo apice, viene nominato come viceré un certo Ugone Moncada che era di formazione militare ma che aveva il difetto di avere sempre la testa Tripoli (conquistata appena un anno prima) perché da lì veniva un profumo di piccioli irresistibile per gli uomini politici dell’epoca (quelli di oggi per fortuna sono cambiati). Poi, tanto per mettere i canditi sulla cassata, avevamo un trio d’attacco alla Gullit, Van Basten e Rijkaard che componeva il vertice del santo Tribunale, rispettivamente: Alfonzo Bernal, Diego Bonilla e Diego de Obregon: tre campioni uno meglio dell’altro.

Un giorno di agosto, dicevamo, approda a Palermo la nave del Comandante spagnolo Diego (tutti si chiamavano come a Napoli nel periodo di Maradona) De Vera: uno scappato di casa che aveva combinato più danno che altro nella sua vita. E siccome non voleva smentirsi, con la scusa che si erano scordati l’ultima volta che avevano percepito lo stipendio, cominciarono a fare il “Viva Maria” combinando le peggio cose: furti, omicidi, razzie, stupri, ubriacate etc etc.

In quella baraonda si trovò pure il giovane di nome Giovanni Pollastra, che poi è l’eroe di questa storia, che mi piacerebbe immaginare come una sorta di Brad Pitt; purtroppo tutti lo chiamavano “Surciddo” e quindi con rammarico lo dobbiamo ridimensionare ad un Alvaro Vitali del 1500. Giovanni quel giorno stava andando a trovare la sua bella fidanzata che si chiamava Nina: gli era venuto il dubbio che c’era un po’ troppo macello, guardandosi attorno, ma era concentrato all’amore della sua vita e non ci fece caso.

Appena però, nei pressi della Vucciria, vide la sua Nina in preda a uno di questi spagnoli che cercava di rubarle il pane (giuro che era il pane anche se non ci credo), non capì più niente e sopraffatto dall’ira e dalla gelosia, estrasse la spada del soldato e con essa stessa lo trafisse. «Morte agli spagnoli!»¸ urlò Pollastra dopo la botta di adrenalina.

Non fu cosa che disse, tutti i palermitani rinvigoriti da tale motto cominciarono pure loro a fare razzia di spagnoli uccidendoli quasi tutti; solo il comandante Diego de Vera riuscì a scappare travestendosi da femmina. Moncada, il viceré, mischino, non aveva capito niente perché era impegnato a fare scampagnate sopra i tetti di palazzo Chiaramonte: che ne poteva sapere lui che, un po’ brillo un po’ felice, scherzava e rideva gridando: “Amò, quanto mi ami? Matteo!”

Il suo ruolo, però, gli impose di porre subito rimedio alla questione che risolvette con molta scaltrezza: approfittò del fatto che Giovanni Pollastra, essendo un “nuddu ammiscatu cu nienti” e non un capo politico, non riuscì a portare a termine la rivoluzione (che forse manco voleva fare) e dunque, calmate le acque, qualche giorno dopo, lo fece arrestare condannandolo a morte di subito. A settembre Surciddu saliva sul patibolo e inutile fu il tentativo del popolo di boicottare l’esecuzione e salvarlo: Pollastra pendolava già appeso al cappio senza vita. Successivamente gli fu anche intitolato un vicolo; ma, purtroppo, i grandi cambiamenti della toponomastica della città ne fecero perdere le tracce.
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