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Una pietra miliare scampata al sacco edilizio: quel "felicissimo" palazzo da riscoprire a Palermo

Parliamo di Palazzo Maniscalco-Basile all'Olivuzza, realizzato da un ingegnere palermitano per donna Barbara Schachowskoi, vedova di George Wilding, nel 1847

Danilo Maniscalco
Architetto, artista e attivista, storico dell'arte
  • 26 aprile 2021

Palazzo Maniscalco-Basile a Palermo

«Poiché io percepisco ciò che è buono e bello, che esiste secondo le sue proprie regole di proporzioni, che è definito dal suo numero, che non vien meno al suo ordine, esse divengono luce per me e, in altre parole, mi illuminano».

Sono parole di Dionigi pseudo Aeropagita ma ben si prestano a descrivere il portato spirituale dell'estetica posta in essere dall'edificio che Rosario Torregrossa, ingegnere palermitano immagina e realizza per donna Barbara Schachowskoi, vedova di George Wilding nel 1847, quel Palazzo Maniscalco-Basile in piazza del Sacro Cuore 3, costruito con "lessico serenissimo".

Un pezzo di paesaggio della Laguna veneziana nel "Barrio Florio", una testimonianza del Neogotico pienamente corrispondente al gusto eclettico ottocentesco che lascia in Sicilia e nel suo capoluogo pietre miliari fortunatamente scampate al piccone demolitore del sacco edilizio.

È questa un'architettura di "facciata", ben armonizzata alla cortina edilizia di cui fanno parte gli attigui Palazzi Wirz e Florio e con i quali condivide il destino di testimone di tempi misurati sulla lentezza di riti e di miti suggestivi e romantici, cadenzati dai profumi stagionali e dal suono di calessi trainati ancora dai cavalli.
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Progetto dominato da una rara e coinvolgente simmetria impostata sulla centralità della loggetta del primo piano, l'elegante costruzione rivestita in mattoncini bianchi e rosa, si contraddistingue per l’armonioso confronto delle partiture che mettono in rilievo l'intero abaco di soluzioni compositive tipiche dell'architettura della Serenissima a cui Torregrossa volle fare chiaro riferimento: le merlature del piano attico; i suggestivi giochi geometrici dei rosoni circolari a coronamento delle esili colonne; il ricorso agli archi a sesto acuto, tutti elementi capaci di trasportare in terra sicana un pezzo di quella ricerca veneziana della terra/acqua dei Dogi.

Ed è proprio nella raffinata loggetta centrale che si concretizza il punto notevole dell'intera composizione, proprio qui tra i ritmi costanti e misurati delle otto colonne forgiate in ghisa così come il raffinato intarsio modanato dei rosoni superiori presso quell’icona della storia artigianale/artistica palermitana che fu tra Otto e Novecento la Fonderia Oretea, passaggio letteralmente inciso o forse è meglio dire “forgiato” e ben visibile in uno dei sette rosoni superiori.

"FONDERIA ORETEA 1847", riporta la scritta, ma con essa incisa, è presente una storia lunga oltre un secolo e mezzo, portatrice come la bellezza di cui è perno, del messaggio universale tipico delle opere d'arte italiane: quella capacità di legare luoghi, persone e storie apparentemente distinte e distanti tra loro ma unite tutte da radici comuni.

In un futuro e sempre più necessario itinerario del Neogotico siciliano, l'intero ambito urbano dell’Olivuzza non potrà che esser scenario indispensabile da cui dover passare, e Palazzo Maniscalco-Basile rappresenta sicuramente un “felicissimo” tassello narrativo da riscoprire e ammirare.
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