LE STORIE DI IERI

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“Ché le cose bone in questa Città non durano”

  • 7 luglio 2006

Per rendersi conto di quanto vero ci sia nel commento usato come titolo di questa “storia”, i palermitani hanno avuto a disposizione un’infinità di esempi e tanti secoli. Ma chi oggi ne volesse avere storica conferma deve solo leggere la pagina che i diaristi Paruta e Palmerino scrissero il 4 giugno del 1490. Per tramandare che intorno a tale data “si fecero nella città di Palermo due censori che andavano con un bastone dorato in mano, ed avìano quattro algozini” – attuali guardie di polizia urbana, ndr – “per loro e pigliavano tutti li vagabondi che passìavano per la città e li portavano carcerati. E doppo l’interrogavano, domandandoci come campavano e che offizio o arte facìano. E quando non aviano arte o vero offizio, ci facìano ingiunzione di averla di fare. E quando non aviano arte o vero offizio li portavano in galera. Mentre si avìano arte o vero offizio, ci facìano ingiunzione di farla e non andare vagabondi per la città; e questo sotto pena della galera. E così non si trovano più marioli per la città. Dio lo voglia” - concludevano i quattrocenteschi reporter – “che questo bono proposito dura; chè le cose bone in questa città non durano”.

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Certo, provvedimenti estremi per niente in linea con la convivenza democratica dei nostri giorni, ma con una chiosa esemplare nel senso su indicato e che fa riflettere e venire in mente parecchio di ciò che a Palermo non è durato negli ultimi quattro secoli. Perdite di buone cose delle quali fare l’elenco non è qui ovviamente possibile. Anche se almeno ad un paio di esse qualche riga si può pure dedicare. Ci riferiamo, anzitutto, alla scomparsa del mare che è l’assenza più penalizzante per una città il cui nome si deve al greco Panormon, “tutto porto”. Sparizione che ad uno straniero che passeggi al Foro Italico potrebbe sembrare una grossa bugia. Perché è innegabile che almeno da quel punto il Mediterraneo lo si può scorgere e immaginarselo pure sconfinato. Ma è altrettanto vero che tantissimi palermitani settantenni quello stesso mare lo hanno quanto meno visto allontanarsi di giorno in giorno dalla terraferma. Al tempo in cui migliaia di carretti continuavano a seppellire le profumate scogliere della Marina con ciò che restava della città polverizzata dalle bombe del 1943.

Allontanando il mare ogni giorno di più per realizzare nel modo più tragico la “terraferma” sulla quale sarebbero poi sorti la seconda carreggiata del Foro Italico, gli attuali spezzoni di villa a mare e il prato d’erba e plastica delimitato dagli incredibili birilli di ceramica dei quali tutti sanno. Anche se va detto che quei carrettieri fecero di quello spazio rubato al mare un luogo sacro alla memoria di tutti i palermitani. Perché è certo che sotto le zolle e l’asfalto d’oggi si trovano i frammenti delle piccole cose che furono care a quanti dei nostri parenti ebbero le case distrutte dai “liberators” e perfino dalla Luftwaffe dei nazisti non più alleati. Mentre proprio niente resta, in via Francesco Crispi, del bel lungomare le cui scalette portavano giusto al livello delle onde perdute.

Quanto poi alla seconda e provvisoriamente ultima delle “ bone cose” che qui non durarono, per ricuperarne il ricordo bisogna ricorrere alla memoria degli odori. Appunto al buon profumo di terra bagnata che si levava al passaggio delle autobotti che a luglio e ad agosto di molti anni fa annaffiavano e lavavano le strade. Almeno quelle principali, anche se esse non erano più quelle che nella città vicereale stavano nell’elenco delle vie inevitabilmente da “limpiar”, da ripulire assolutamente e in ogni stagione. Magari servendosi degli strani tubi e delle manichette di pelle che, insieme con la gratitudine per tali ripuliture viarie, destarono la sguaiata ironia dei palermitani del Settecento. Ai quali abbiamo accennato sul nostro “Balarm”, nella storia dedicata ad un ingiustamente dileggiato amministratore quale fu il senatore Tommaso Chacon, noto a quel tempo come “Giacona l’annaffiatore del Cassaro”.

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