LE STORIE DI IERI

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Era palermitano il Rhum più buono del mondo

  • 18 aprile 2006

“L’inferno? Niente di troppo terribile. Nient’altro che una specie di Palermo senza le sue belle pasticcerie!” Era così che, in un film tratto da un romanzo di Dacia Maraini, una nobildonna del nostro settecento dava un’idea della definitiva dimora dei reprobi. Non senza qualche ragione, dato che a rendere più sopportabile la vita nella città “irredimibile” basta spesso e ancora il succoso boccone che possiamo staccare da uno dei dolci locali più profumati. Il notissimo babà impregnato di rhum, che si vuole nato a Napoli ma che è diventato da qualche secolo uno dei più allettanti “cittadini” del regno delle Due Sicilie. Un miracolo quotidiano che la bravura dei nostri artigiani fa lievitare in una proustiana intermittenza del cuore legata all’ormai esotico liquore col quale brindavano i pirati di Stevenson e che non mancava mai nei cocktail amati da Hemingway. Lo stesso rhum che adesso è giamaicano per eccellenza ma che si produceva - anche per essere barattato con pregiate stoffe inglesi e fiamminghe - nella Conca d’Oro quando vi si stendevano a perdita d’occhio le piantagioni di Cannamela. La nostra dialettale canna da zucchero della quale, per incredibile che possa sembrare, non siamo come al solito in debito con l’America. Perché, anche se è poco noto, non è meno vero il fatto che fu per l’intervento di un sovrano portoghese se i cespi della nostra “canna de la tierra” emigrarono prima a Madera e poi nel Nuovo Mondo.

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Ma per tornare al pregiato rhum palermitano, è testimonianza degna di rispetto quella di un autorevole professore d’agraria, come Luigi Bianca, che a fine ottocento continuava a sostenere che quel liquore distillato anche in altre parti nell’Isola era ancora al suo tempo “di gran lunga preferibile a quello straniero”. Mentre a quanti oggi si chiedano come mai tale “acqua della vita” sia scomparsa da queste parti, insieme con le relative distillerie, tornano utili le parole dello stesso cattedratico. Un esperto che non esitò a sostenere che a tagliar le gambe ai produttori isolani furono i balzelli imposti su zucchero e rhum dai nostri “padroni “ di ogni epoca. A cominciare dai Normanni che da astuti colonizzatori, e perciò non proprio per altruismo, fecero dono a Monreale d’un mulino particolarmente attrezzato “ad moliendas cannas mellis”. Cioè per la lavorazione delle dialettali “cannamele” che continuano a crescere, ormai inselvatichite, alla periferia di Palermo. E fu così che il prezzo proibitivo di dodici tarì per ogni bottiglia di rhum prodotto sotto i Borboni dissuase i nostri contadini dal coltivare la canna da zucchero e indusse i distillatori a chiudere bottega.

Con il conseguente tracollo industriale del quale lo stesso Luigi Bianca volle consolarci con ingenua serenità. Quando si persuase a scrivere quanto segue: “Del resto, convertendosi lo zucchero in alcool non si fa altro che cambiare un nutrimento in veleno. Né avrebbe svolto un buon problema di pubblica economia chi riuscisse a rendere meno costosa una sostanza il cui abuso può rendere più struggitrici all’umanità le tante malattie che l’affliggono”. Tutto questo con buona pace dei corsari di Stevenson e di quanti, assaporando estasianti bocconi di babà, ritengano di potersi consolare della cucina dei moderni dietologi. Imposta, oltre che dagli acciacchi “struggitori” dell’età avanzata, anche da una generalizzata propensione domestica a non ricavare più dai frutti della nostra terra le esaltanti specialità dolciarie e gastronomiche d’una volta. Che nell’attuale offerta spesso stentano pure a far distinguere questa città da certe temibili dimore oltremondane.

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