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Gian Maria Bassanelli, l’oste che nutriva anche l’anima

  • 25 settembre 2005

“Vita di taverna vita eterna” fu espressione che ancora a metà del Settecento, ma anche per parecchio altro tempo dopo, qui rimase speciosa giustificazione alla vita di bagordi che gli sfacinnati più irrecuperabili conducevano nelle bettole e nei ritrovi sui cui tavoli correvano i dadi e scorreva il vino forte. Eppure a Palermo, parecchio tempo prima che i cosiddetti caffè letterari diventassero famosi in tutta Europa, ci fu un locale, appunto una taverna, nella quale un oste illuminato - che nel 1767 era arrivato qui dalle brumose pianure lombarde - cominciò a nutrire oltre che il corpo anche l’anima dei suoi avventori. Ci riferiamo al famosissimo ostiere Gian Maria Bassanelli che insieme alla sua “Taverna di li Casciàra” fu celebrato nell’aureo libretto di un abate caro a Giovanni Meli. Un personaggio e una taverna dei quali gli attuali “palermitanisti” hanno appreso con dovizia di particolari soprattutto dalle straordinarie pagine di “Palermo Felicissima” di Nino Basile.

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Naturalmente, nel cuore antico della città ma anche ai confini degli agrumeti e delle ultime piantagioni di canna da zucchero, a quel tempo erano noti altri chiassosi ritrovi dove gli inni all’amore e al vino si cantavano con allegria magari a volte pensosa. Erano La Perciata dell’Albergheria,, la Pasciuta di Brancaccio, la Taverna della Musica d’Orfeo ai Settecannoli. Ma fu assolutamente unica quella taverna che nell’odierna via dei Cassàri fu gestita dal Bassanelli dopo averla ereditata da un cugino. E che per parecchi anni insieme ai gaudenti plebei accolse e deliziò ragguardevoli esponenti del clero, poeti e letterati e molti dei patrizi più colti. Perché occorre sapere che l’ottimo Gian Maria, “di opulente e maestose forme e di belle e pulitissime maniere”, aveva studiato in un gran seminario lombardo dove era diventato letterato e filosofo ma dove aveva iniziato ad esercitare la filantropia che fu sua ulteriore virtù qui apprezzata fino al 1782, anno della sua scomparsa. Accadde così che, morto il precedente gestore, Bassanelli restaurò e abbellì la taverna rendendola per così dire “dotta”. Nel senso che accanto agli armadi che contenevano salsicce e formaggi e pietanze prelibate, oltre a tanti orci pieni di buon vino, egli collocò e mise a disposizione degli avventori alcuni scaffali che riempì dei libri che si era portato dietro dal seminario. Non solo, ma finì che egli arricchì quella raccolta anche con tanti altri importanti volumi che oltre alle opere di autori greci e latini compresero le opere del Muratori e di scrittori e poeti inglesi contemporanei. Mentre sappiamo che molti dei suoi frequentatori si rivolsero spesso a lui per aver chiarito il senso di certe difficili frasi latine e greche. Cosa che Bassanelli faceva con gentilezza e modestia assai rare. Ma quanto alla filantropia dell’insolito oste va detto che egli non mancò di venire incontro ai bisogni della povera gente che, altrettanto numerosa degli intellettuali, frequentava la sua taverna. Magari facendo piccoli prestiti a fondo perduto e sicuramente offrendo tanti pasti “gratis et amore Dei”.

Il buon lombardo aveva solo 47 anni quando passò a miglior vita. E grande fu la commozione delle centinaia di persone che gli tributarono i funerali che si conclusero con l’inumazione nella vicina parrocchia di San Giacomo La Marina alla Vucciria. Dove le sue ossa furono però disperse dalle cannonate borboniche che vi spezzarono anche la resistenza di alcuni insorti nel maggio del 1860. Una chiesa che, ricostruita alcuni anni dopo, resta solo un guscio vuoto, pericolante e sconsacrato nella stessa via dei Cassàri, nel cuore del centro storico disastrato. Dove molti dei vecchi e dei giovani che sono ora i nostri ultimi della terra si inoltrano e forse si emarginano da se stessi, di giorno ma ancor più la notte. Firmando la loro presenza solo con l’ultima bottiglia di birra vuota lasciata in linea con le altre sulla soglia di un’assai diversa taverna nel mercato che muore.

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