LE STORIE DI IERI

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L’Albergo dei Poveri

  • 6 maggio 2004

Il 24 aprile del 1746 fu posta a Palermo la prima pietra del complesso monumentale dell’Albergo dei Poveri che ancora oggi s’innalza grandioso e decadente sul Corso Calatafimi. Dell’avvenimento dette così notizia il Marchese di Villabianca: «Si gettò la prima pietra della Chiesa dell’edificio dell’Albergo generale dei Poveri, fuori Porta Nuova, ove assistè Sua Eccellenza il Viceré a nome del re nostro signore…sotto il rimbombo delle artiglierie delle vicine fortezze urbane e di numerosissimi mortaretti ai quali risposero le campane del duomo». Preciso come sempre, Villabianca, non mancò di far sapere che «sotto la cava delle fondamenta si trovarono un  piccolo sepolcro marmoreo, che conteneva un cadavero, un piccolo luogo di sepoltura, una lucerna antica col lume smorzato ed un buon grastone di creta». Una serie di particolari tra i quali uno sicuramente eccessivo. Spetta ai lettori individuarlo. Ma l’aristocratico diarista aggiunse anche la notizia dell’incredibile processione che, il giorno prima, aveva attraversato la città dopo essersi costituita nei pressi dell’attuale corso dei Mille da diverse decine di mendicanti, handicappati e straccioni in non eccellenti condizioni di salute che a qual tempo e da quelle parti erano accolti in un insufficiente ricovero noto col bizzarro nome di Serraglio Vecchio.

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Si seppe anche che la semovente corte dei miracoli rientrò all’ospizio a tarda sera. Salmodiando al lume di scarse fiaccole, evidentemente senza aver turbato l’animo delle autorità che sarebbero intervenute l’indomani, dopo aver piantato una croce su un mucchio di sassi davanti al palco che avrebbe accolto il viceré. Ben altro turbamento, per restare in tema di palermitani poco abbienti e di abitazioni in città, destò nei lettori del giornale “L’Ora” una lettera che in un aprile di molto successivo, nel 1956, fu inviata al direttore dal signor Michele Selvaggio, pittore di vasellame. Il quale volle fare presente, anche al discendente dell’antico Pretore dei tempi del Villabianca, che i suoi sette figli “tremavano nell’umido” di una stanza di tre metri per quattro, il cui pavimento la sera diventava tutto un materasso. In corso Alberto Amedeo, giusto dalle parti del Cortile Cascino.

E Selvaggio sottolineò il particolare che su quel “letto” di dodici metri quadrati ci passavano la notte in undici.  Compresi i genitori e un paio di nonni. Di quanto spazio disponesse ciascuno, ai lettori fu facile calcolarlo. Anche se va aggiunto che a rabbrividire, in quell’aprile freddissimo, i bambini dell’artigiano non erano stati i soli. Perché le cronache del mese riportarono pure la minima storia metropolitana di due trentenni, anch’essi privi di un tetto, che decisero di passare la notte dentro una giardinetta belvedere. All’interno della quale ebbero cura d’accendere un rudimentale braciere, alimentato a legna e a giornali. Ciò che trasformò in camera da letto a gas l’angusto abitacolo. Li salvò un metronotte curioso che li fece trasportare alla Feliciuzza, dove furono giudicati guaribili in cinque giorni. Ovviamente “salvo complicazioni e s. m.”, nel non meno agghiacciante burocratese ospedaliero dei referti.

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