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Chi ha il pane non ha i denti: Solunto, il sito archeologico (palermitano) abbandonato

Uno dei siti archeologici più grandi, antichi e significativi di tutta la provincia proprio per la sua stratificazione eppure è abbandonato. Sul sito del Ministero dei Beni Culturali risulta addirittura chiuso...

Sara Abello
Giornalista
  • 3 maggio 2022

Con un mea culpa grande quanto una casa devo riconoscere che solo sino a qualche settimana fa non ero mai stata a visitare il sito archeologico di Solunto. Pochi passi da Bagheria e certo non distante da Palermo, uno dei siti archeologici più grandi, antichi e significativi di tutta la provincia proprio per la sua stratificazione.

Le rovine dell’antica città di Solunto si trovano a circa 20 km da Palermo appunto, sulla collina denominata Monte Catalfano, alta 374 metri con consequenziale “bello sbalanco”, nel comune di Santa Flavia. Vi consiglio la visita fosse anche solo per la vista da lassù, poi che io abbia beccato la giornata più uggiosa del mese è tutto merito e fortuna personale...

Le più antiche notizie su Solunto le abbiamo da Tucidide, secondo il quale furono i Fenici, a partire dal VII secolo a.C., ad occupare il territorio e a dare vita alla prima colonizzazione. In seguito la città fu conquistata da Dioniso I di Siracusa durante la guerra contro i Cartaginesi e probabilmente il centro abitato fu saccheggiato e distrutto per poi essere ricostruito sul Monte Catalfano, di fronte Capo Zafferano, e qui si insediarono un gruppo di mercenari greci. La città passò poi sotto il dominio dei Romani nel 254 a.C. durante la Prima Guerra punica, per poi essere definitivamente abbandonata nel I secolo d.C.
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Ovviamente queste informazioni non le tiro fuori dal mio cilindro ma ci giungono proprio dai reperti rinvenuti
nell’area del promontorio. Quando si dice che «è proprio la terra a parlare». Il nome Solunto ci è stato tramandato dagli storici greci, e deriverebbe da quello di un brigante, almeno stando a quanto dice il mito della sua fondazione, mentre su alcune monete, perchè nel caso in cui non lo sapeste esisteva una zecca propria, si trova il nome punico Kafara, che significa “villaggio” e con cui oggi si indica una delle spiagge più note e caratteristiche della zona. Secondo Tucidide era questa una delle principali città fenicie di Sicilia, insieme a Mozia e a Palermo, ma dell’abitato fenicio sono rimaste poche tracce, ben visibili sono invece i resti della città greca.

L'area archeologica è gestita dalla Regione Siciliana-Assessorato dei Beni culturali e dell’Identità siciliana, e su questo si potrebbero dire tante cose...

Nel 2003 è stato aperto al pubblico il nuovo antiquarium di Solunto, organizzato in due distinte sezioni che sono ospitate in altrettanti padiglioni, all’ingresso e poi alla fine del percorso, così da accompagnare i visitatori con due piccole aree museali.

Una breve introduzione con il padiglione A che accoglie al suo interno anche un’importante testimonianza di monete, grazie alle quali è stato possibile ricostruire proprio la storia del villaggio, e poi a conclusione del percorso il padiglione B, interamente dedicato alla documentazione prodotta dai nuovi scavi ed alla “cultura materiale” della città, per poi concludere la visita con una piccola esposizione di reperti subacquei di varie epoche, recuperati nelle acque del litorale di Porticello, frazione marinara di Santa Flavia.

I reperti più noti sono custoditi invece al Museo Salinas di Palermo. Ma sapete in origine a cosa doveva servire la struttura che da un ventennio ospita l’antiquarium?! Ebbene pare sia stata edificata negli anni ‘50 e che fosse destinata ad un ristorante per i turisti che si recavano a visitare il sito. Poi fortunatamente negli anni 2000 qualcuno ha avuto un’illuminazione e ha compreso l’importanza di un piccolo polo che potesse fungere da supporto informativo più che per la panza dei visitatori che, scesi dalla collina, avranno l’imbarazzo della scelta per il loro nutrimento.

Oggi è riaffiorata più o meno un terzo dell’antica cittadina, davvero molto poco se ci pensate, ma è chiaro che per una nuova campagna di scavi sarebbero necessari dei fondi di cui non si dispone e negli ultimi anni sono stati effettuati solo degli scavi di approfondimento, i più recenti nel 2021, così da far riemergere elementi e dettagli nelle aree già oggetto di studio in precedenza.

Pare che sin dal ‘600, come riportano i diari dei tanti viaggiatori passati da qui, si assistesse al riaffiorare periodico di qualche reperto. Se ci pensate ancora oggi, ogni volta che in tutta la zona si interviene, qualche ritrovamento è ormai scontato. Proprio poco tempo fa, iniziati i lavori per l’abolizione del passaggio a livello di Santa Flavia, “qualcosina” è venuta fuori senza far neanche troppa notizia tale è l’abitudine.

Fu però solo nel 1825, come riferiva Salinas, che una società privata intraprese la prima campagna di scavi, “nulla” in confronto al lavorone iniziato nel 1951 da Vincenzo Tusa,padre di Sebastiano, che avviò una campagna durata un ventennio. Così per secoli, per volere di società private, principi e professori, tassello dopo tassello è riemerso l’antico assetto urbano che vedeva canonicamente la cittadina ripartirsi in isolati e 3 diverse zone: l’area privata che si sviluppava lungo le vie trasversali; l’area pubblica nella parte finale della via principale; l’area religiosa posta in zona intermedia tra il settore privato e quello pubblico.

Putroppo, e piange davvero il cuore a dirlo, la situazione in cui riversa attualmente il sito non è delle migliori, per usare un eufemismo. Io non amo denigrare il lavoro altrui o gli sforzi delle amministrazioni pubbliche, per carità, di leoni da tastiera ne abbiamo a sufficienza in giro. Non sono le macchie di umidità dal padiglione A che mi turbano, ma constatare che parte delle rovine non sia visibile a causa dell’erba alta e delle sterpaglie, che Leda e il suo cigno si stiano gradualmente cancellando e che quel che resta dei mosaici sia totalmente in balia delle intemperie e dei furbacchioni che potrebbero decidere di farsi un quadretto con delle tesserine e portarne via indisturbati una bella manciata.

Quello che mi duole riportare è la totale assenza di controlli, credo che alcuni degli addetti non facciano un giretto sin lassù da un bel po’ di tempo. Credetemi che non sono catastrofica a dirvi che se fossi scivolata per terra, ruzzolando giù con la leggiadria che mi contraddistingue, mi avrebbero trovato prima gli avvoltoi che chi di dovere. Spiace vedere che vi sia molta disinformazione, recentemente ho avuto modo di constatare che persino il sito del Ministero dei Beni Culturali dà il sito per chiuso, quando è invece visitabile 6 giorni su 7. Non è faciloneria la mia, ma basterebbe davvero poco a migliorare la
situazione in cui il sito riversa ad oggi.

Innanzitutto potenziare la comunicazione favorirebbe l’incremento di visitatori e così anche di fondi utili se non ad intraprendere nuove campagne di scavo, quanto meno a rendere più fruibile la parte attualmente a disposizione dei turisti. Insomma “due spicci” in più per salvare il salvabile e dare il giusto lustro a quello che in altre parti del mondo attirerebbe una mole incredibile di turisti e studiosi.

Mi piacerebbe raccontarvi solo il meglio di questo luogo che, come ho detto, offre una visuale da lassù che domina su tutto il promontorio e un tuffo nel passato che valgono comunque la visita, ma non si può neanche parlare sempre come se fosse tutto rose e fiori. Non ho due fette di fesa di tacchino sugli occhi, io neanche lo mangio il tacchino, figuratevi!
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