Il coraggio di una madre: chi fu la prima (siciliana) che testimoniò contro la mafia
Leonardo Sciascia descriveva Serafina Battaglia, la prima “pentita di mafia” così: vestita tutta di nero, col velo in testa e lo scialle, gli occhi segnati da profonde occhiaie scure

Serafina Battaglia
Così Leonardo Sciascia descriveva Serafina Battaglia, la prima “pentita di mafia”. Vestita tutta di nero, col velo in testa e lo scialle, gli occhi segnati da profonde occhiaie scure, assomigliava a una di quelle statue della Madonna Addolorata che si vedono sfilare insieme all’urna del Cristo Morto, durante le processioni del Venerdì Santo.
Era “donna di mafia”, ma era anche una vittima, le avevano ucciso prima il compagno con cui aveva condiviso 20 anni di segreti e poi il figlio Totò: quest’ultima cosa non l’aveva proprio sopportata. Aveva dunque inutilmente confidato nella protezione delle famiglie mafiose! Aveva creduto ingenuamente alle loro promesse! Invece glielo avevano ammazzato come un cane quel figlio (“ma poi che figlio! Che figlio educato!”).
«Fino a che mi avevano tolto mio marito non avevo detto niente... e naturalmente! Ma no ca’ mi toccaru a me figghiu, io dovìa reagire!», avrebbe affermato in una intervista del 1967. «Vigliacchi! E disonorati! (…) Perché un s’ammazza un picciriddu! Me’ figghiu, picciriddu era: 21 anni, 5 mesi meno tre giorni».
Se davanti alla morte del compagno non aveva parlato, vincolata dalla regola non scritta dell’omertà, davanti alla morte del figlio non poteva e non voleva stare zitta. Non aveva più nulla da perdere: “Come sia, sia!”. Aveva deciso. Avrebbe denunciato gli assassini. Serafina era nata nel 1919 in una famiglia in odore di mafia. Era stato suo padre a sceglierle il marito, da cui aveva avuto suo figlio Salvatore.
Fina, sfidando lo scandalo dell’adulterio, era andata a vivere poi con un altro uomo, l’affascinante e distinto Stefano Leale, un piccolo commerciante mafioso. Aveva imparato a sparare e portava la rivoltella sempre nella pettorina: ferro e rosario insieme. Stefano aveva cresciuto come un figlio Salvatore Lupo. Anni dopo si erano entrambi legati alla criminalità organizzata di Alcamo, dove capomafia era Vincenzo Rimi (1902-1975).
Il sociologo Pino Arlacchi scriveva che Vincenzo Rimi era "considerato come il leader morale di tutta Cosa Nostra siciliana degli anni Cinquanta e Sessanta". Serafina dal canto suo ricopriva il ruolo tipico della donna mafiosa: nel retrobottega della torrefazione di Stefano ascoltava tutti i segreti dei mafiosi.
Nell’aprile del 1960, una sera Stefano Leale viene ucciso in via Torino a Palermo mentre esce dal proprio negozio, che è una copertura per le attività criminali. Dopo due attentati falliti, viene circondato dinanzi alla sua torrefazione da 5 sicari che gli sparano. Si difende a colpi di pistola, ma troverà la morte: sarà una delle vittime della guerra di mafia per il controllo della zona orientale della città.
Suo figlio Salvatore verrà freddato 20 mesi dopo, il 30 Gennaio 1962: gli sparerà a tradimento il suo guardaspalle, in una strada di campagna. Serafina Battaglia aveva pagato quest’uomo perché le proteggesse il figlio… Quest’ultimo tradimento è la famosa goccia, nel famoso vaso per Fina, che dichiara guerra alla mafia.
La Battaglia diventa il simbolo del coraggio, in una città dove regna un clima di assoluta omertà. Osa rivelare al giudice istruttore Cesare Terranova i nomi dei mandanti degli assassini di Stefano e di Salvatore: si tratta di Filippo e Vincenzo Rimi. Ha poi il coraggio anche di ripeterle in un’aula di tribunale quelle accuse, durante un processo, davanti ai magistrati e agli imputati accusati del crimine; dinanzi a parenti e di amici che si indignano per il suo tradimento: una donna d’onore dovrebbe “stare muta”.
Invece Fina si inginocchia, piange, accusa, mostra al presidente del tribunale il fazzoletto macchiato dal sangue del figlio.” I miei parenti! I miei parenti – confesserà la donna amareggiata in una intervista del 1967 - i miei parenti che hanno a che dividere con questa cosa? (…) mia madre non ne vuole sentire niente, le mie sorelle hanno paura…ma io paura non ne ho perché quello è mio figlio, non ne avrò mai paura in vita mia!”.
Serafina, chiamata a deporre perché presente in via Torino alla sparatoria, con voce ferma parla per oltre un’ora e mezza, svelando “i torbidi retroscena del delitto”: racconta delle riunioni tra mafiosi che si tenevano nel negozio del marito e dimostra che all’interno di Cosa Nostra le donne conoscono i più terribili e spaventosi segreti della mafia. Rivolta agli imputati esclama: «Vi riconosco tutti, non posso sbagliare, siete tutti perduti».
«Mio marito era un mafioso e nel suo negozio si radunavano spesso i mafiosi di Alcamo. Parlavano, discutevano e io perciò li conoscevo uno a uno. So quello che valgono, quanto pesano, che cosa hanno fatto. Mio marito mi confidava tutto e perciò io so tutto. Se le donne dei morti ammazzati si decidessero a parlare così come faccio io, non per odio o per vendetta ma per sete di giustizia, la mafia in Sicilia non esisterebbe più da un pezzo».
Avrebbe poi detto Fina in un’intervista a Mauro De Mauro, giornalista de L'Ora, che, impressionato dal suo coraggio, fece esplodere mediaticamente il caso della “vedova della mafia”. La testimonianza della Battaglia sarà determinante e la corte condannerà i vari imputati a 106 anni di carcere.
Si legge sulle pagine di un quotidiano dell’epoca: «fino a stamane tutti i testi hanno dimostrato di avere perduto la memoria e di non sapere nulla (…) unica ad aprire una breccia nel muro dell’omertà è la signora Serafina Battaglia». Sebbene testimone di giustizia senza paura, la Battaglia resta tuttavia un personaggio pieno di chiaroscuri.
I giornali la definirono “la vedova della mafia”,“la vedova con la P38”, “la vedova nera” (per via del suo abbigliamento). Noi ci chiediamo: il suo coraggio fu dettato veramente dalla sete di giustizia? O dal desiderio di vendetta? Oppure dal rimorso e dal senso di colpa, perchè fu lei stessa a firmare la condanna a morte del figlio?
Secondo una testimonianza di un noto pentito, Antonino Calderone, Serafina tutte le mattine svegliava infatti Salvatore incitandolo a vendicarsi: «Alzati che hanno ammazzato a tuo padre! Alzati e valli ad ammazzare». Inoltre Vincenzo Rimi nel processo celebratosi a Perugia, fu condannato in primo grado e in appello all'ergastolo per l'assassinio, di Salvatore Lupo Leale, ma nel 1971 in Cassazione la condanna fu annullata perché, prima di essere ucciso, il procuratore Pietro Scaglione depositò un dossier con cui dimostrava che la Battaglia aveva mentito.
Il nuovo processo portò il 13 febbraio 1979 all'assoluzione dei Rimi per insufficienza di prove. Il vecchio Rimi morì, nel suo letto, prima di quest'ultima sentenza. Il 26 gennaio 1979 viene ucciso Mario Francese, il 25 Settembre dello stesso anno cade anche il giudice Cesare Terranova, mentre Mauro De Mauro, è stato rapito nel 1970 e il suo corpo non sarà mai più ritrovato: tutti vittime di quella mafia che Serafina ha provato invano a sconfiggere.
Rimasta sola e dimenticata, la Battaglia si chiude nel silenzio e nel dolore, sempre vestita a lutto, vive tra i ricordi del compagno e del figlio. Scrive Gaetano Savatteri, in "Le siciliane": Serafina resta a vivere nella sua casa all’Olivuzza, a poca distanza dal palazzo di giustizia di Palermo. Armata di pistola, pronta a difendersi da minacce che mai arriveranno, trasforma la casa in una cappella votiva per il figlio. Muore nel 2004, ha più di 80 anni.
L’Ansa le dedica un trafiletto: «Morta Serafina Battaglia, prima donna contro i boss. Era stata dimenticata». Ai tempi del primo processo del 1962, a chi le chiedeva se avesse fiducia nella giustizia, Serafina rispondeva: «Relativamente! Non perché non sono uomini di coscienza, ma possono fare relativamente, perché la giustizia ha di bisogno della fotografia mentre chiddu ci spara. Nun ci bastanu le lettere, nun ci basta che parra a matri, nun ci bastanu i testimoni…Quella divina è più di quella terrena! Quella terrena vale relativamente».
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