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Il siciliano è una Babele: una spiegazione alla "sanfasò" di alcune (famose) frasi di uso comune

Conoscere il significato di tutte le frasi e le parole che il siciliano ci dona mica è cosa facile. A volte nemmeno i siciliani stessi ne conoscono il significato. Qualcuno ve la spieghiamo noi

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 24 maggio 2021

"Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole" (così inizia il racconto della Torre di Babele: Genesi 11, 1-9); in pratica si potrebbe dire che la terra era globalizzata ancora prima dell'avvento di Mc Donald's.

Uno diceva di qua e tutti andavano di qua, l'altro diceva di là e tutti andavano di là, i libretti d'istruzioni erano piccolissimi e non c'era nessuno che litigava perché tutti si capivano. Oggi, invece, se uno va in Giappone e dice Kago Sushi ti passano il cestino del sushi, se lo chiedi a Palermo ti consigliano di cambiare dieta o al massimo ristorante.

In Novergia chi ha un grande Kulo ha un grande udito, in Finlandia se scoppia un kulo bisogna chiamare i pompieri perché è scoppiato un incendio boschivo; e in Germania quando uno è sempre presente è immerda. A quei tempi, come d'altronde anche oggi, quando si trattava di mangiare e bere gli uomini erano sempre presenti, quindi potremmo dire, fosse stato il tedesco la lingua di quel periodo biblico, che a ora di mangiare e bere gli uomini erano immerda.
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Tornando alla Bibbia, un giorno che gli uomini si trovarono nel paese di Sennar decisero, così, senza autorizzazioni, di costruirsi un città e una torre che arrivasse a toccare il cielo (tanto... ammugghia, fai e dici, una volta che si gettano le fondamenta c'è poco da fare). Ora, Dio era uno che cercava di chiudere un occhio quando poteva, ma da qui a essere scambiato per il primo Pinco Pallino qualunque ce ne passava: quello tutte cose aveva capito: "See, ora ve la do io la sanatoria!".

Ecco, discese sulla terra e confuse la lingua di modo che gli uomini non potessero più capirsi e di conseguenza costruire la città con quella fetenzia di torre abusiva. In buona sostanza, uno cominciò a parlare in tedesco, uno giapponese, uno in aramaico, uno si stette zitto perché non aveva niente da dire e gli altri spartirono le lingue che erano rimaste.

Ma arriviamo al dunque. In questa spartizione, è evidente, per i siciliani qualcosa deve essere andato storto perché, tra modi dire, suoni e cose tra le righe… vediamolo il perché!

Muriu u cani: a Palermo quando si indica con aria afflitta un cane deceduto non significa che lì attorno troverete la carcassa dell'animale ma che una cosa è andata a finire male, che peggio di così non poteva finire. Per fare un esempio, spesso, quando tornavo da un esame universitario non finito benissimo, perché avevo studiato solo i primi tre capitoli a saltare, mio padre mi chiedeva come fosse andato, io rispondevo "muriu u cani" e lui capiva che era andato benissimo (consiglio dello chef: per variare, così vostro padre sente cambiare musica ma il significato è il medesimo, potete usare anche "finìu a cachi".

Altro modo dire, che questa volta non usavo io ma il professore che mi interrogava, era "che nicche e nacchi" e che veniva contestualizzato perlopiù quando la matricola 0510342 (nonché io) a domanda precisa rispondeva con una minchiata col botto nel tentativo di arrampicarsi sugli specchi.

Questa colorita (e quanto da me sentita!) espressione che viene dal latino ("nec hic, nec hoc", letteralmente né questo né quello) potremmo farla corrispondere all'esclamazione "ma cosa c'entra!", o ancor meglio, come nel caso del mio professore a "ma che minchia sta dicendo!".

La fase 3 è quella del "senta, forse è meglio che si ripresenti al prossimo esame", ovvero siete stati rimandati. Qui entra in gioco un altro modo di dire: "manciarisi l'ossa cu sali", cioè mangiarsi le ossa col sale e che è di semplicissima comprensione perché significa rosicare.

Dunque, ricordate la parte in cui si dice al padre "muriu u cani"? Ecco, subito dopo entra in scena un altro tipo di cane, che questa volta non è morto ma, anzi, campa fresco e pettinato e pure a scrocco. Infatti è proprio così che vi etichetta quando tornate a casa con l'ennesimo trionfo: sei un "canazzo di bancata!". Ragione o torto, questo folcloristico aggettivo si riferisce al cane che viveva (speriamo sempre meno) come un randagio nei mercati a ridosso dei banchi dei macellai o venditori vari (da qui cane di bancata), campando come un pascià tra dormite e cibo scroccato.

La contrattazione a casa si fa critica e intricata perché nessuno capisce se lo studente in questione (voi), visti i risultati, è sotto l'effetto di un maleficio oppure è semplicemente un malaminchiata (cioè non proprio un'aquila). In fine, quando è sera, e sembra che le acque si siano calmate, scendete in garage per prendere la macchina: cosa è meglio di un bel giro con gli amici per dimenticare di un brutto esame?

Aprite, aggiustate il sedile… mancano le chiavi! A lato passeggero, di fronte la santina di Padre Pio, ci sta seduto vostro padre che vi da l'ennesimo insegnamento di vita: "P'un cuinnutu, un cuinnutu e mienzu!" (per un cornuto, un cornuto e mezzo) che non è troppo distante da "non fare agli altri, quello non vorresti fatto tu" o "occhio per occhio, dente per dente".

Torre di Babele a parte, se c'è qualche studente di fuori, magari qualche Erasmus, intenzionato a venire a studiare in Sicilia (alla Sanfasò, cioè senza pretese), è bene che faccia di questo articolo la propria bibbia personale.
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