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La "strage dimenticata" del 1848 in Sicilia: nell'antica torre uccisero 114 persone

Anche lo scrittore Camilleri ha ricostruito quell’eccidio in uno dei suoi romanzi. Tantissime persone in quel maledetto giorno soffocarono e bruciarono vive

Elio Di Bella
Docente e giornalista
  • 4 febbraio 2023

La torre di Porto Empedocle

Il 1848 fu un anno particolare per la Sicilia: fu l’anno della rivoluzione contro il regime borbonico. La città di Girgenti (oggi Agrigento) insorse subito dopo Palermo. Un comitato rivoluzionario nella Città dei Templi si costituì al comando dell’ex generale borbonico Gerlando Bianchini.

Durante quei moti rivoluzionari avvenne delle più efferate stragi su cui subito si stese un velo di silenzio e non soltanto da parte delle autorità borboniche, tornate presto al potere in tutta la Sicilia: la strage di Porto Empedocle (AG), nella notte tra il 25 gennaio e il 26 gennaio del 1848 nella Torre di Carlo V che veniva utilizzata come prigione.

Lo scrittore Andrea Camilleri nel suo romanzo “La strage dimenticata” (Sellerio) ha ricostruito quell’eccidio di 114 detenuti nell’antica Torre della Borgata Molo, vecchio nome di Porto Empedocle, da parte delle truppe borboniche al comando del maggiore Ignazio Sarzana, che soffocarono e bruciarono vivi in una cella comune i detenuti.
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In questo testo presentiamo su quegli eventi anche la testimonianza del generale agrigentino Gerlando Bianchini. I lettori possono mettere a confronto quanto ha scritto lo l’empedoclino Andrea Camilleri e quanto raccontato ad un giornale patriottico palermitano il Generale Gerlando Bianchini, pochi giorni dopo la strage.

Lasciamo prima la parola allo scrittore Camilleri: “Il maggiore Emanuele Sarzana comandava il presidio della Torre alla Borgata Molo. Giorno 25 gennaio 1948 … al tramonto…, una folla di un centinaio di persone si spinge, vociando, sotto le mura della Torre (del Molo di Girgenti n.d.r.). “In quei giorni erano arrivati molti forastieri” contava mia nonna.

E si spiega: parenti e amici avevano avuto tutto il tempo di correre dai loro paesi alla Borgata per organizzare la liberazione dei forzati, e molti di questi forestieri, approfittando dell’ammaino generale, erano arrivati armati (…)

Quando i carcerati sentono le voci da fuori, eccitatissimi, non sapendo precisamente quello che sta succedendo ma comprendendo che comunque sia qualcosa si muove a loro favore, si mettono a fare un gran chiasso. Di fronte a questa situazione, Sarzana, non perdette la testa.

Capì subito che se tutti gli uomini gli servivano per parare il pericolo esterno, bisognava che a sorvegliare i carcerati non restasse manco un soldato.

Ordinò quindi che a botte, a colpi di calcio di fucile, a catenate, tutti i forzati sparsi per la Torre fossero obbligati a calarsi nella fossa comune (…). Lì ammucchiati i carcerati iniziano a ribellarsi e far baccano. I soldati allora isolano l’unica via d’uscita, la scala che era dentro al cilindro.

Ciò significava chiudere l’unica presa d’aria della fossa comune (…). Inizia una sparatoria tra i soldati e la folla fuori la torre. La sparatoria si allunga nel tempo. Questo basta però perché i forzati nella fossa vengono a trovarsi senza aria. I forzati allora fanno voce da disperati e si accalcano, tanto da dar pressione alla grata (…). Il maggiore capisce il pericolo e l’unica cosa da fare è alleggerire il peso che versa sulla grata.

Così comanda ai suoi soldati di lanciare tre petardi nella fossa e di isolare di nuovo la scala. Capisce che, così facendo viene a mettersi in una botte di ferro: se i carcerari muoiano, nessuno potrà sostenere che in lì c’era una volontà di fare una strage (…)”. Il danno è compiuto: 114 detenuti muoiono.

Adesso sugli stessi fatti lasciamo la parola al Gerlando Bianchini, comandante delle truppe rivoluzionarie di Girgenti, che così descrisse quei terribili eventi nella lettera che inviò al vice console inglese, a Girgenti, Oates.

“I bravi cittadini del sottoposto Molo imitarono tosto l'esempio (di Girgenti), però carne venduta ad un tiranno, incallita nelle sevizie, nelle barbarie, la truppa che colà stanziava (nel Molo di Girgenti n.d.r.) unitamente al comandante e bassi uffiziali, inchiodati prima i cannoni della lanterna, rinserrossi nel forte (la torre di Carlo V n.d.r.), e spinta da diabolica risoluzione, la notte del 23 fece fuggire i servi di pena onde far dagli stessi massacrare le oneste e tranquille famiglie di quella borgata; ma tuttoché oscura la notte, scoverti i fuggiaschi dalle pattuglie civiche momentaneamente organizzate, soli 82 rimasero liberi, che sbandati e incalzati dal vivo fuoco delle vigilanti pattuglie, si avviarono disordinati alle loro rispettive comuni.

Fallito il sacrilego colpo di quei vili, rannodato il rimanente di condannati, e in angustissima fossa fattili accatastare gli uni sugli altri, concepirono l'avido disegno di profittare delle somme di quegl'infelici a furia di patimenti e d'indefesso lavoro ammassate, con non mai somma umanità, in quella fossa, capace a stento di soli 40 uomini, disperatamente vi rinchiusero 206 disgraziati, e senza conforto di nostra santa religione, giammai a' più colpevoli negata, tirandogli delle accese granate e zolfo ardente, tutti gli uccisero.

L'indomani sortivano dal forte tredici carri pieni di cadaveri perfettamente ignudi. Ahi dura terra perché non t'apristi! Rimasero morti 134, moribondi 15, e 65 vivi”.

Alla lettera che leggiamo sul numero 27 del “Giornale patriottico”, uscito a Palermo il 21 febbraio 1848, è stata aggiunta una nota che sottolinea che “tale atto di selvaggia crudeltà, di vilissima ferocia, si è taciuto finora sul timore che avesse potuto alla per fine stancare l'eroica moderazione serbata costantemente da questo popolo, in tutto il periodo della rivoluzione, ad onta delle non poche incredibili barbarie che giornalmente commetevansi dalla “morale” e “disciplinata” truppa del re di Napoli.

Sia però detto ad eterna gloria del popolo di Girgenti, che, astretti poscia a cedere, e resisi prigionieri gl'iniqui autori di tanto scempio, i perfidi soldati furono anche eglino fraternamente accolti ed abbandonati solo agli strazi della loro rea coscienza in pena della nefanda scelleraggine di cui eransi mostruosamente resisi colpevoli".

Grave della strage fu il silenzio delle autorità dell’epoca che occultarono la sorte tragica di questa povera gente. Gli assassini e i complici silenziosi fecero carriera. Il maggiore Sarzana fu promosso e trasferito al comando della piazza militare di Licata, come governatore del real Castello a mare S. Giacomo.
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