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"Lettere di scrocco", sequestri di persona, minacce: il pizzo ad Agrigento (since 1861)

Tra le carte dell'Archivio di Stato di Agrigento, nei fascicoli della Prefettura già dal 1861, ecco la storia del malaffare a Girgenti e di molte famiglie che fu attraversata da simili minacce

Elio Di Bella
Docente e giornalista
  • 4 marzo 2022

Anche la giumenta quel mattino pareva inquieta; pure i raggi della luna sembravano darle fastidio quella notte. Che sentisse pure lei l’angoscia del suo padrone, don Tano Vajola, mentre saliva verso le Forche? “Botta di sagnu“! ripeteva don Tano. La causa di quel malumore era certo la lettera che stringeva in un pugno e ogni tanto lungo il cammino guardava (come se sapesse leggere!...) nella notte appena rischiarata dalla luna piena. L’aveva trovata sotto un sasso che ostruiva il cancello del fondaco della sua masseria, là alla Villa Seta, quella lettera per lui indecifrabile.

Ma l’avvocato s’era spiegato bene quando gliela aveva portata. L’avviso era chiaro: ”Caro amico, poche parole e vestito di panno, o denaro o il pugnale; siamo venti padri di famiglia disperati; portateci onze venti per la sera, alle tre dietro la Chiesa di San Vito. Se non vi smovete, uno di noialtri viene di presenza col pugnale al petto”.

Una lettera di “scrocco”, dunque. Una delle tante che in quegli ultimi mesi circolavano a Girgenti (oggi Agrigento). L’abbiamo trovata tra le carte dell’Archivio di Stato di Agrigento, nei fascicoli della Prefettura, anno 1861. Non sappiamo come sia finita la triste vicenda di don Tano, perché nessuna relazione accompagna il foglio. Probabilmente come tanti, dovette rassegnarsi a sborsare quelle venti onze (moneta diffusa in quei tempi in Sicilia e che nel 1861 equivaleva nel Regno d’Italia appena nato 12,75 lire ).
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La storia di molte famiglie della provincia agrigentina è attraversata da simili minacce. Riferendosi sempre a quegli anni, lo storico agrigentino Giuseppe Picone registra nella sua opera più celebre (Memorie storiche agrigentine): “Qui (a Girgenti) sono frequenti i precetti di scrocco. Se ne conoscono gli autori, e si lasciano camminare nelle strade! Non si sa se l’anarchia fosse maggiore della vigliaccheria dei magistrati”.

Due anni dopo, nel 1863, 75 commercianti di Girgenti inviarono una lettera di protesta al Prefetto Enrico Falconcini per manifestare la propria paura per la diffusione di “lettere di scrocco, sequestri di persona, estorsioni varie “. E concludevano con una minaccia: “Noi emigreremo con tutte le nostre famiglie per trovare altrove quella pace e quella tranquillità che siamo desiderosi di acquistare: abbandoneremo sin da oggi le nostre campagne e chiuderemo le nostre miniere… “.

Ancora nel 1875, interrogato dalla commissione antimafia, il Colonnello Comandante della zona di Girgenti affermava che “nella più parte dei Comuni rurali l’amministrazione è in mano alla feccia, la povera gente che lavora, invece che buoni esempi, non vede che cattiva gente che s’innalza coll’usura o collo scrocco o col ricatto“.

La musica non cambia neppure nel secolo successivo. Abbiamo letto molte sentenze del Tribunale penale di Girgenti che riguardano processi istruiti a seguito di estorsioni perpetrate a mezzo di lettere anonime. Dalla sentenza n.468 del primo giugno 1906 (in Archivio di stato di Agrigento, inventario 9, fascicolo 25) apprendiamo che un pastore di anni 31 di Canicattì, da lungo tempo latitante, il 24 agosto del 1905 aveva inviato una lettera minatoria “diretta al signor Cristoforo Lombardo – si legge nella sentenza – con cui chiese la somma di lire quattromila da consegnare in un determinato punto con parola d’ordine e sotto minaccia di sequestrare la persona oppure distruggere il bestiame”.

Un’altra lettera simile il delinquente mandò al cavaliere Gerace Gaetano di Castrofilippo chiedendo lire mille “sotto minaccia della vita”. Ma “denunziati i fatti ai Carabinieri – assicura la sentenza – si fecero diversi servizi di appostamento nella via tra Castrofilippo e Canicattì che riuscirono infruttuose”. Si ebbero però poi dei sospetti su un pastore di Canicattì e “vennero eseguite delle perizie calligrafiche di esso, risultarono affermative nel dichiarare come effettivamente scritte dal pregiudicato”. Immediato scattò l’arresto e la condanna a quattro anni e sei mesi di reclusione.

Un’altra sentenza viene emessa contro quattro balordi, uno dei quali si spacciava per un famoso latitante e gli altri per suoi affiliati. Questi malvagi giovinastri ( di età compresa tra 23 e 27 anni, provenienti da Racalmuto, Canicattì e Sommatino) a Castrofilippo tenevano in pugno alcune povere famiglie richiedendo loro cibarie e pochi soldi. Con lettere minatorie le minacciavano di morte. Furono così convincenti che una di queste famiglie era così modesta che si fece prestare le due lire richieste dagli estortori. Alla fine però i malviventi ebbero la peggio e il tribunale penale di Girgenti li condannò a quattro anni di reclusione (sentenza n. 503 del 10 giugno 1903, inventario 9, fascicolo 23).

Un giorno minacce di morte arrivarono per posta anche a casa del barone Francesco Agnello. “Addì 7 aprile 1922 pervenne al Barone Francesco Agnello una lettera tassata, impostata senza francobollo in Favara contenente la richiesta di lire 500.000 con minacce di vita per conto del latitante (omissis)”. Il Barone denunziò il fatto ai Reali Carabinieri che andarono invano alla ricerca del pericoloso latitante favarese che lo minacciava. Il soggetto però era da tempo uccel di bosco. Non si potè pertanto accertare se avesse ispirato davvero il reato e neppure se sapesse leggere e scrivere.

Il 7 luglio 1922 pertanto il tribunale di Girgenti dovette assolvere per insufficienza di prove il soggetto denunziato. (archivio di stato di Agrigento, inv.9 fasc.53). Ma è noto che il barone Agnello e altri aristocratici dell’epoca venivano regolarmente bersagliati da simili minacce e in alcuni casi qualche blasonato venne sequestrato dai banditi. Famoso fu il caso del sequestro del barone Cafisi avvenuto nel 1875 per opera della banda Sajeva, ma forse ( allora si disse) per fare un favore al barone Celauro di Girgenti. Le estorsioni insomma in alcuni casi erano organizzate dagli stessi notabili agrigentini che dirigevano e proteggevano il banditismo siciliano.
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