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Evelina Santangelo, poetica e radici di un'autrice affermata

  • 16 gennaio 2006

Scrittrice, siciliana, giovane, affermata, elegante. Queste le coordinate di Evelina Santangelo, autrice palermitana legata ad Einaudi. Nella geografia della letteratura nazionale contemporanea si identifica e localizza con precisione come narratrice di grande talento, raffinata, lontana dal genere poliziesco ma non troppo distante da una ricercata atmosfera noir. I suoi scritti richiedono da parte del lettore una particolare propensione verso la narrativa di qualità. In altre parole, come abbiamo già avuto modo di dire, il suo stile è per chi ama leggere.

Evelina, tu lavori e scrivi per una casa editrice con una grande, antica tradizione, sei editor e da scrittrice ti rivolgi – visto il tuo stile – ad un pubblico di nicchia. Nonostante ciò il tuo successo è indiscutibile. Da questo tuo punto di osservazione privilegiato, come definisci l'atteggiamento dell'editoria italiana per la letteratura di tono superiore al blockbuster medio, quindi teoricamente a rischio da un punto di vista commerciale?
Non parlerei in generale. Ogni casa editrice opera le sue scelte. Come è evidente, negli utlimi tempi l'editoria italiana ha cercato di non soccombere dinanzi al generale "disamoramento" per la lettura pubblicando scrittori imprestati, diciamo, alla letteratura. Ha cioè tentato di agganciare l'attenzione del grosso pubblico, ricorrendo a una strategia in cui quel che conta è la popolarità pregressa (e non per motivi strettamente letterari) dello scrittore in questione. Un'altra strategia adottata mi sembra quella di cavalcare l'onda di una certa moda (il noir, il giallo, il romanzo a sfondo sessuale, magari condito con un po' di piccante "verità" autobiografica). È anche vero, però, che alcuni editori hanno cercato, in qualche modo o in parte, di rimanere fedeli a se stessi, al proprio ruolo, tentando nei limiti del possibile di continuare un discorso letterario anche di più alto profilo. A questa esigenza, o sarebbe forse meglio dire, a questo senso di responsabilità, credo si debbano tutta una serie di autori-autori (di autori cioè che perseguono un loro autonomo proggetto artistico-espressivo) che ciononostante popolano il nostro panorama editoriale. Oggi ho l'impressione, infatti, che pur nel prevalere di un'editoria di mercato, intesa nel senso più ristretto del termine, si profilino sempre più voci straordinariamente diverse per vocazione e intenzioni artistiche, voci che rivendicano, ognuno a proprio modo, il diritto di non asservirsi alla logica di un mercato rampante, per quanto (sarebbe inutile negarlo) ne sentano le pressioni e vivano con disagio un tale stato di cose.

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Qual è stato il tuo percorso professionale? Nasci editor o scrittrice?
Oggi mi sento, in realtà, entrambe le cose, e ho anche l'impressione che i due aspetti fondamentali della mia professionalità traggano nutrimento l'uno dall'altro. Il rigore di certe scelte espressive così come addirittura la sensibilità per alcuni temi credo proprio che non derivino infatti soltanto da una mia connaturata insofferenza nei confronti dell'approsimazione (che ritengo sempre una grave colpa) e da un'altrettanto connaturata passione per universi esistenziali marginali, ma ritengo che queste mie, diciamo, propensioni si siano andate precisando proprio in questi anni, lavorando anche sui libri degli altri, facendomi un'idea il più possibile chiara sia di quel che sta accadendo nella letteratura contemporanea, sia anche di quel che (dal mio punto di vista) fatichi ad accadere: e cioè un ritorno a un'idea di scrittura che abbia a che vedere con il "senso di responsabilità" legato al proprio ruolo, per quanto se ne senta qua e là l'esigenza. Riguardo poi al nascere una cosa o l'altra... be', credo di non esser nata né editor né scrittrice, piuttosto lo sono diventata man mano, coltivando una passione per la letteratura che all'inizio, soprattutto, sembrava a molti un "perdere del tempo". Certo avere avuto un padre che mi ha iniziato alle lettere è stato determinante.

Nei tuoi romanzi,"La lucertola color smeraldo" (Einaudi 2003) e "Il giorno degli orsi volanti" (Einaudi 2005), si nota spesso un filo diretto tra i giovani protagonisti, come l'allucinato Ivan o il romantico Jon ed altri personaggi di due generazioni più avanti, i nonni o comunque gli anziani. Con la generazione immediatamente precedente, quella dei padri per intenderci, molti dei tuoi giovani personaggi vivono invece un contrasto forte a tratti drammatico. Qual è il senso di questa scelta?
Onestamente mi accorgo della cosa adesso che tu la sottolinei. Non ho vissuto personalmente un conflitto generazionale. Credo che quegli anziani, così come li ho immaginati, non rappresentino, in realtà, una generazione cui guardare, ma singole esperienze esistenziali che diventano rilevanti per i miei protagonisti: Ivan e Jon. L'unica cosa che mi sentirei di dire è che forse quegli anziani lì rappresentano un modo di vivere in cui le tensioni si stemperano in una sorta di sollecita apertura verso tutto ciò che rappresenta un "rilancio" della vita, i giovani appunto, con le loro inquietudini vitali e le loro aspettative esistenziali. Forse, di contro, certi padri sono spesso impegnati in dinamiche che li rendono meno disponibili e più propensi a difendere a tutti i costi il loro modo di concepire la vita, magari per non sentirsi estromessi precocemente da essa. Le madri, invece, spesso si configurano un po' come la famosa madre di "Gita al faro" di Virginia Woolf, tessitrici che filano e connettono esistenze, tenendo vivo il principio vitale della convivenza anche degli opposti.

Ivan, Jon, Vian, il suono di un'armonica, un circo di zingari, un'atmosfera "balcanica", ma anche colori caldi di un paesaggio - non solo geografico - fortemente mediterraneo. Si percepisce bene, nelle cose che scrivi, un legame intenso tra l'oriente vicino e il sud d'Europa. Da cosa deriva?
L'Est europeo e il Sud, il nostro Sud come il Sud del mondo... è vero, in alcune delle mie storie si respira aria che ha a che vedere con queste coordinate, che ritengo abbiano, in parte, una matrice autobiografia. Grazie a mio padre, ho scoperto, ragazzina, i poeti antillani che hanno cantato la negrità e come quei canti, in cui si rivendicava identità e dignità, avessero a che vedere con un'idea di Sud inteso come luogo di fortissime tensioni umane negate. Così, paradossalmente, la mia attenzione verso problematiche esistenziali che hanno a che vedere con una condizione "marginale" si è andata, fin dall'inizio, definendo passando attraverso altri Sud, diciamo, geograficamente non così vicini a noi, eppure idealmente così prossimi. Forse per questo, in linea di massima, i miei luoghi, i luoghi delle mie storie non sono mai così circonstanziati geograficamente, ma sono piuttosto espressione di uno sguardo più vasto. Per quel che riguarda l'Est, be', ho avuto sentore del mondo balcanico, delle sue tensioni meno manifeste, molto prima che la questione jugolslava divenisse argomento da prima pagina. E ciò è accaduto quando, sempre ragazzina, ho ascoltato mio padre parlare del Kosovo, che lui conosceva molto bene (perché ne aveva studiato la cultura e perché aveva amici cari perseguitati prima di Tito e poi dai serbi). Forse per queste ragioni l'Est è per me un po' come un'altra faccia del Sud: un luogo negato.

A proposito di luoghi negati e di "negazione dei luoghi": "cu nesci arrinesci"? Col tuo legame forte e passionale ai tuoi luoghi, la tua sensibilità nei confronti del nomade, dell'esule in terra straniera e con la tua personale esperienza, fermo restando il valore indiscusso dell'esperienza che deriva dal "viaggio", cosa pensi di questa sorta di maledizione presente anche nella nostra letteratura, da Verga, passando per Tomasi di Lampedusa, fino ai contemporanei? Ci crogioliamo - da bravi siciliani - su questa specie di "condanna divina"?
Per me "formarsi" vuol dire fare esperienze, umane, intellettuali… E dunque ho vissuto (e vivo) il mio vivere tra luoghi diversi (la Sicilia e gli Stati Uniti, prima; e adesso la Sicilia e il Piemonte) come un fatto assolutamente naturale, diciamo. Forse perché vengo da una famiglia che ha sempre avuto contatti con l'estero o forse per via di un'irrequietudine che mi ha sempre portato a mescolare esperienze diverse e a sentire tutto ciò come un arrichimento interiore, non ho mai vissuto il mio andare altrove come una condanna, ma piuttosto come un privilegio. Il che non significa, come è stato detto, che non ho radici. Le ho, e fortissime anche, ma ho sempre pensato che le radici, se non si nutrono di linfe varie e diverse, finiscono o possono finire col rendere sterili le piante che dovrebbero nutrire. Almeno per me è così. Ognuno, infatti, ha suoi peculiarissimi modi di misurarsi con la vita. Quello che, a volte, mi stupisce è, invece, la tendenza che hanno alcuni a considerare l'andare altrove come "un tradimento", "una perdita d'identità", liquidando tutto ciò che non è immediatamente riconoscibile o assimilabile alla corrente idea di cultura letteraria siciliana (che come ogni idea pregiudiziale finisce per risultare asfittica) come espressione di qualcosa che non "appartiene", tutto sommato, anche a questa nostra terra. Oggi, più che mai, i confini delle identità sono sempre più vasti dei confini geografici.

Evelina, cosa deve fare chi desidera migliorare ed approfondire le proprie capacità di scrittura ed eventualmente pubblicare i propri scritti? Le scuole di scrittura servono? Se sì, esattamente a cosa servono? E' normale dover pagare un editore per riuscire a pubblicare?
Rispondo subito all'ultima domanda. È sbagliato "pagare un editore per riuscire a pubblicare". Per l'editore pubblicare un libro è un investimento economico e intellettuale, dunque se non intende sobbarcarsi dei rischi connessi a tali scelte tradisce se stesso, il proprio ruolo e l'autore che "stampa". Insomma, lavora come un tipografo, non come un editore. E, d'altro canto, l'autore, in questi casi, diventa vittima, in realtà, di un calcolo puramente economico. Per quel che riguarda le scuole di scrittura, be', ritengo che, se sono ben fatte, se cioè sono davvero scuole di formazione in cui imparare non tanto a scrivere, ma a capire cos'è e cosa implica quel gesto, non possono che essere utili. Scrivere sul serio, con consapevolezza, non è semplicemente "una dote", implica un apprendistato, una disciplina molto rigorosa (come lettori e come autori di testi), implica insomma una formazione che tutti gli scrittori, anche da autodidatti, hanno sempre cercato di acquisire. Capisco che viviamo in un tempo in cui l'industria culturale ha fatto della scrittura un modo come un altro per acquistare una certa visibilità. Oggi prevale più l'amore per l'essere scrittori che l'urgenza di scrivere, l'urgenza cioè di dare una qualche forma, attraverso le parole, al magma esistenziale. Ma credo che sarebbe un grave errore confondere i piani (che gli editori hanno, di solito, ben chiari), confondere gli "scrittori occasionali", anche se hanno pubblicato decine di libri, con gli "autori" impegnati in una ricerca artistica e umana, frutto sempre di un lavorio interiore e artistico (fatto di scelte espressive, formali, tematiche…) che implica un continuo interrogarsi sui nodi cruciali della contemporaneità e sulle possibili forme attraverso cui misurarsi con essi. In conclusione, non credo che ci siano modi migliori o peggiori di formare il proprio gusto, la propria sensibilità, il proprio linguaggio, il proprio immaginario, l'importante è non finire in luoghi asfittici, e non lasciarsi prendere anche da quest'atmosfera di esuberante dilettantismo e approssimazione che oggi, in Italia soprattutto, sembra la cifra di ogni manifestazione umana, non solo nell'ambito dell'arte.

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