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“La gatta di pezza”, il mondo degli ultimi stavolta non convince

  • 12 settembre 2005

Sulla scena un unico misero ambiente (con water, un tavolo, arredi da cucina e tanti, troppi letti), delle sagome bianche che si stagliano su un rosso striato, un contrasto che colpisce l’occhio e mette in allarme l’anima. Purezza e passione, demenza e istinto, miseria e crudeltà, ciò alimenta una cultura della violenza che, resa manifesta nelle volgarità a profusione riversate sul resto della succube famiglia dal padre - padrone (interpretato da Franco Scaldati, bravo nel ruolo di Benito), anche altro cagiona: un incesto reso ancora più terribile dallo stato di demenza in cui versa la figlia Aurora (interpretata da Egle Mazzamuto), col gatto di pezza sempre in braccio. Stiamo parlando dello spettacolo “La gatta di pezza”, testo di Franco Scaldati e regia dello stesso autore insieme con Matteo Bavera, scene e costumi di Mela Dell’Erba, (con Assunta Porfido nel ruolo della moglie Emma, Anna Di Maggio in quello della suocera Rosa, Fabio Palma, il fratello gay di Emma, Manfredi Scaffidi Abbate, Vito, Domenico Di Stefano, Aurelio, oltre ai già citati Scaldati e Mazzamuto), una produzione del Teatro Garibaldi con Benevento Città Festival e la stessa Compagnia Franco Scaldati che ha allestito il lavoro andato in scena per la stagione 2005 al teatro Garibaldi di Palermo l’8 settembre. Si tratta di un testo lirico e crudo al tempo stesso, secondo lo stile al quale il grande drammaturgo palermitano ci ha da tempo abituati.

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La sensazione è quella di vedere un altro frammento di quell’unico infinito testo che è la Palermo degli ultimi e dei disperati. Infatti, che sia l’ambiente di “Occhi”, un mirabile lavoro degli anni ottanta (con i grandi attori della compagnia di allora), o il più recente “Pupa Regina Opere di fango” (per l’ottima regia di Marion D’Amburgo e Lucia Ragni, anche brave interpreti) visto l’anno scorso al teatro Garibaldi, o ancora il "Sonno e sogni" di quest'anno sempre al teatro della Kalsa, poco importa: siamo sempre in quel mondo di infinita miseria morale e materiale nel quale un’umanità senza nulla, la speranza innanzitutto, vive esistenze squallide oltre ogni dire. Qui però ci sembra che qualcosa non funzioni. Nonostante le belle scene della Dell’Erba, come sempre efficaci e significative, il lirismo del testo non giunge e quel mondo, tanto misero quanto reale nelle parole di Scaldati, si perde in una rappresentazione tediosa, caratterizzata da un lento ritmo scandito dalla monotonia dei toni e l’inadeguatezza delle luci. Anche gli attori non hanno retto il confronto con Scaldati e così, oltre una desolante macchietta en travestì e altri clichè nei personaggi rigidi, ben poco altro (e purtroppo nulla della poesia del testo) arriva. Comunque lo spettacolo riesce a regalare allo spettatore qualche momento forte ed intenso: lì dove il laido padre si occupa della figlia demente con una cura orribilmente amorevole, per esempio, ovvero nella splendida fissità della scena finale che porta alla conclusione. Uno spettacolo che ancora può senza dubbio migliorare.

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