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Natale semper certo, menù numquam

Anticamente l’alimentazione era influenzata da soccu s’attruvava. Ogni stagione aveva delle specialità, che si aspettavano stagione dopo stagione, finché non fosse giunto il tempo giusto. Oggi che abbiamo tutto a disposizione tutto l’anno, l’attesa, che sembrava esaltare la bontà di quei piatti o quelle primizie, è svanita e con essa 'u prio di assaporare l’agognato alimento. I menù siciliani delle feste non erano molto vari ed erano composti, per lo più, dai prodotti stagionali: a Trapani il couscous di pesce; a Catania i vari timballi e le scacciate; nei paesini di campagna si faceva la prima ricotta, si macellavano i primi agnelli, cucinati al forno con le patate e i maiali, cucinati col miele, preparati al ragù con asparagi e funghi e poi era un tripudio di carciofi, broccoli, cardi in pastella, soffritti con l’aglio e l’olio, cunigghi apparecchiati, arance, mandarini, scaccio e per finire spinci, cassatelle e buccellati.

A Capodanno erano immancabili le lenticchie, ca' puortano picciuli, cosa gradita a tutti, per cui nonostante si fosse satolli, ognuno ne prendeva almeno una cucchiaiata, giusto per augurio, allo scoccare della mezzanotte. Oggi, grazie alle contaminazioni di varia natura, i cenoni, spesso, si aprono con tartine al salmone e uovo di lompo, o caviale, continuano con le lasagne o i tortellini, si chiudono con il cotechino e il Panettone. Ogni famiglia inoltre aveva e ha la propria specialità.

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A casa mia erano due i piatti che apparivano solo durante questo periodo di grazia: le cipolline in agrodolce, fatte dalle mani benedette dall’Angelo della mia mamma e il baccalà alla siracusana, gentilmente portato dalla nonna dei miei cugini, per me la zia Graziella. Signora piccolina, attrivitissima, che confermava con il suo piglio la definizione di chiwawa d’attacco. Sveglia, pizzuta e sempre all’erta, era pronta a rintuzzare chiunque per qualsiasi cosa non andasse come lei voleva. La sua venuta a Palermo era un’angoscia per mia zia, che si sentiva bacchettare anche per come sistemava le pentole. Quando la zia Graziella doveva preparare il baccalà, si barricava in cucina per mantenere segreta la ricetta e controllava continuamente se qualcuno la spiasse. Non comprendeva che tutti, suo figlio compreso, approfittavano di quella situazione per fuggire.

Gli ingredienti erano scelti personalmente da lei, dato che nessuno sarebbe stato in grado di individuare le cose migliori! E li comprava a Siracusa, perché a Palermo, grande città, la fregatura è assicurata, soprattutto se la cliente è una bella donna vedova e sola. La preparazione era lunga. Il 22 dicembre cominciava l’ammollo del baccalà in acqua corrente, occupando, dopo averle disinfettate, tutte le bacinelle della casa e impedendo, quindi, il trasporto della biancheria pulita. A casa di mia zia il bucato era bandito dal 22 al 25. L’ammollo suddetto serviva a dissalare e ammorbidire il pesce.

La mattina del 24, la zia Graziella, alzandosi a capo di mattina, facendo un rumore insopportabile, cominciava la cucinata. Soffriggeva in un tegame capiente e molto largo un battuto di cipolla, sedano a cui aggiungeva, dopo averlo sciolto nell’acqua, un bello cucchiaino di astrattu. Univa i capperi dissalati, le olive nere al forno e le fettine di un finocchio. Lasciava cuocere per un quarto d’ora a fuoco basso e con il coperchio. Nel frattempo divideva a tocchi il baccalà, lo sbollentava, lo schiumava, lo scolava e asciugava. Aggiungeva il pesce e i tocchetti di patate sbucciate al sugo e lasciava cuocere un altro quarto d’ora con il coperchio a fiamma moderata. Spolverava con il prezzemolo e lasciava insaporire.

L’unico privilegiato che poteva assistere alla preparazione era mio cugino, che, secondo lei, non avrebbe mai rivaleggiato, essendo maschio. Da lui siamo venuti a conoscenza della procedura di questa delizia. Per cui quando portava in tavola quei tegami, tutti fingevano di non sapere nulla e la scuncicavano, invitandola a svelare i segreti di quella pietanza. Ma lei era una tomba e deviava il discorso, suggerendo di naschiare il profumo che si spargeva, degno del miglior svenimento di Sara Bernhard. Nessuno riusciva a celare la gioia di rigustare quella delizia godibile semel in anno e finalmente insanire!

L'Abbinamento

L’analisi gustativa di un piatto, come ripetuto nei precedenti incontri, segue precise regole metodologiche. E’ impossibile sottrarsi anche solo ad alcune di esse, se si vuole raggiungere un risultato soddisfacente. Certo l’impresa non sempre è facile, soprattutto se si ha molto appetito, ed è per questo che è consigliabile degustare un piatto a pancia piena. Altrimenti si rischierebbe di saltare subito al dunque, affogati dalla sete irrazionale del saziarsi, senza se e senza ma. Il nostro approccio deve invece essere ispirato dalla lucidità e dalla pazienza, e seguire un percorso ordinato: osservare un piatto, degustare un cibo, deglutirlo, ed alla fine valutarne gli aspetti, le sfumature, la sua persistenza gustativa.

Nel rispetto di quest’ordine cominciamo ad affrontare la pietanza del giorno. Come tutte le preparazioni a base di pesce conservato sotto sale, il nostro baccalà presenta una grande sapidità e succulenza. Caratteristiche che si uniscono alla tendenza acida del pomodoro e all’aromaticità dei capperi, delle olive e del prezzemolo. Queste considerazioni suggeriscono di scegliere un vino rosso morbido con media tannicità, una buona persistenza gusto-olfattiva ed un bouquet ricco di sentori fruttati. Il vino proposto è un rosso prodotto nella Doc Mamertino, un vino di cui si hanno testimonianze storiche già nel 289 a.C., quando i Mamertini piantarono nel territorio di Milazzo «una pregevole vite per la produzione di un pregevole vino». Tale era la bontà di questo vino già all’epoca romana che, si narra, venne offerto da Giulio Cesare in occasione del banchetto per celebrare il suo terzo consolato, poi raccontato anche nel "De Bello Gallico".

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