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Un esordio notevole per Davide Camarrone

  • 24 luglio 2006

C’è una donna. Che è una seduttrice nata e fa la puttana da 1500 euro a notte. C’è un commissario di polizia, che è solo ma sveglio. C’è un morto – uno degli esclusivi dodici clienti della donna. Ce ne saranno altri. C’è un intrigo internazionale serrato e feroce che prende le mosse da un diario, il diario del nonno della protagonista, ultimo baluardo di un passato infamante per molti governi d’oltralpe che tentano di accaparrarselo. C’è una Palermo lontana dalle cartoline piacenti e patetiche che si rifilano ai turisti e agli idioti.

Tutto questo in “Lorenza e il Commissario” (Sellerio, p. 220, 10 euro), esordio notevole di Davide Camarrone, giornalista di Rai Sicilia. Ovviamente, c’è dell’altro. Molta ironia, per esempio, miracolo che va sottolineato perché accade sempre più raramente di trovarlo nei libri. «Mi sono divertito molto nello scrivere questa storia – racconta Camarrone a Balarm.it – È nata in maniera semplice, un modo per testimoniare anche l’amore per certi libri e certe storie». Quella che lo scrittore definisce “semplice” è in verità la tela di una spy story intrigante e complessa che finirà per subissare i due eroi del libro. Lorenza e il commissario Paternò vengono immersi in una situazione più grande di loro.
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È l’abilità dei bravi scrittori: costruire dei personaggi e poi metterli alla prova, torturarli, tenderli come si fa con certe stoffe per vedere se sono resistenti; se i personaggi sono fragili si sfilacciano sotto gli occhi del lettore, se sono di buona tempra mostrano la loro grandezza, come nel caso di Lorenza e di Paternò.

«Ho voluto creare un grande affiatamento, un grande lavoro di squadra tra i due per renderli una perfetta macchina investigativa», ci spiega ancora il giornalista-scrittore. La zona grigia in cui si muovono mostra un altro segno di bravura dell’autore. L’intrigo in cui sono coinvolti è un metronomo che oscilla tra la memoria di fatti infamanti, che portano la sigla della seconda guerra mondiale, e un presente non meno abominevole e feroce. La spy story diventa così, come tutta la buona letteratura di genere, un perfetto gesto politico, attento agli umori dei tempi e degli uomini.

Ne viene fuori un ritratto impietoso di certe scelleratezze compiute da italiani, inglesi e francesi durante e dopo il conflitto – ritratte nel diario del nonno di Lorenza, militare e fascista –, ma anche un presente dai tratti beceri e decadenti. Centro propulsore di tutto questo non poteva che essere la Sicilia, e soprattutto Palermo, per quella sua inesorabile tendenza a essere «immagine concentrata e concreta di ogni male italiano» (la definizione è di Sciascia, autore a cui lo scrittore ha dedicato il documentario “Ce ne ricorderemo di questo pianeta”).

Palermo diviene metafora del mondo intero, della sua parte forse più cinica, di quella dove si fa e si disfa la Storia. Dall’unificazione dell’Italia alla liberazione dal nazifascismo. Echi di tutto ciò sono presenti nella scrittura di questo libro, in cui si riconferma la città come uno dei topos letterari più affascinanti degli ultimi 20 anni (apriamo una parentesi per gettare alcuni ami: pensiamo alla Palermo di Sciascia, a quella orwelliana di Perreira, a quella tragicomica di Nino Savarese, a quella nostalgica di Collura, a quella barocca di Consolo, a quella nera di Salvo Licata).

«Città ruffiana, decrepita, decadente, specchio e rovina dell’occidente, una vera puttana», chiosa Gaetano Savatteri quando parla della città descritta dal Nostro, che è, assieme a Lorenza, protagonista assoluta di questa storia. È la storia, si potrebbe dire, di queste due “donne”. Così simili, così complici. Tutte e due puttane (Lorenza ha persino un passato da giornalista che rincara questa definizione), tutte e due timorose e affascinate dal passato (la protagonista è palermitana ma vive a Roma, lontano-vicina dalla sua città e dalla sua storia), tutte e due emblematiche.

L’autore amalgama tali ingredienti e in più, con una bravura inconsueta, riesce nel più difficile dei regali che un narratore di storie può fare al suo lettore: gli lascia tutto il piacere di immaginarsela come vuole («Dico solo che l’idea da cui è nato il personaggio la si trova nella prostituta che tante volte ha accompagnato l’investigatore di Vasquez Montalban nelle sue avventure: è solo un rovesciamento di prospettiva»). Per tutte le 220 pagine del libro, mai un accenno ai suoi occhi, ai suoi capelli, alle sue labbra. Ci viene detto che è affascinante, certo, ci è fatto intuire che è colta e raffinata: per il resto ci è lasciato il compito (la fatica e il piacere e la presunzione) di immaginarcela come la si vuole. A ciascuno il suo. Anzi, la sua.

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