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Non c'erano i Quattro Canti e via Maqueda: Palermo nel primo libro stampato in Sicilia

Non era nei piani nemmeno Piazza Pretoria, e se dicevi "viva Santa Rosalia!" ti rispondevano “Ma cu è?”. La città negli anni turbolenti per tutta Europa

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 19 giugno 2023

Un dipinto della Palermo antica ("Paesaggio italiano. Mezzogiorno" di Maxim Nikiforovich Vorobyov)

Era il 1476 e Palermo era un pochettino diversa da come la vediamo oggi. Non ci stavano i Quattro Canti, via Maqueda ancora era un sogno, Piazza della Vergogna manco a dirlo, e se dicevi "viva Santa Rosalia!" ti rispondevano “Ma cu è?”.

Anni turbolenti e di grande rinnovamento per l’Europa tutta: Lorenzo il Magnifico, Leonardo da Vinci, ducati, signorie, Congiura dei Pazzi appoggiata da papa Sisto IV (divenuto pontefice in sostituzione a Paolo II morto per un'indigestione di melone) e Cristoforo Colombo che già andava cercando sponsor a destra a manca, per le spedizioni, alla tipo “Totò cerca casa”.

E ancora: domenicani contro basiliani, cistercensi contro agostiniani, agostiniani contro francescani, francescani contro tutti, benedettini ora et labora, calci, pugni e sputazzate.

In Sicilia peggio di peggio perché eravamo sotto la dominazione aragonese e di lì a poco Ferdinando il Cattolico e quell’altro bello spicchio di sua moglie Isabella avrebbero istituito il Tribunale della maledettissima Inquisizione combinando più danno che altro.
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La gente giustamente era confusa e non sapeva chi doveva leccare prima. I ricchi leccavano i nobili perché avevano i titoli, i nobili leccavano i ricchi perché tenevano li sordi, i poveri leccavano a tutti perché tenevano fame, e quando non trovavano a nessuno si leccavano la sarda.

Per condire il tutto con il miglior cacio sui maccheroni, avevamo non uno ma due viceré: Guglielmo Peralta e Guglielmo Pujades, che ogni tanto si confondevano pure loro e si leccavano a vicenda.

Proprio in quel periodo - una ventina di anni prima per la verità, ma tanto da noi le cose arrivano dopo- impazzava la notizia che un certo Giovannino Gutenberg aveva inventato un modo per riscrivere i libri in quattro e quattr’otto: "stampa" si chiamava ‘sta potente stregoneria.

E siccome che Francesco Patella, sindaco di Palermo (o pretore, come lo chiamavano all’epoca), in mezzo a tutta sta marmaglia si sentiva di contare quanto il due a bastoni quando la briscola è a denari, una mattina si alzò, andò di fronte ai suoi giurati ed esclamò: “macchì, l’avutri sì e nuatri no?”.

All’urlo di “Cu avi lingua passa u mari” e di “tanto paia u Senato” fu fatto immediatamente chiamare da Andrea Vyel de Worms, grande “magister artis impressorie”. Come scritto nel Registro Atti Bandi e provviste, anno 1476-1477, conservato all’Archivio Comunale di Palermo, non appena giunto, gli fu consegnato “una caxia di licteri di stampa di stagnu et unum torculare di legnami”.

Altro che cerimonie di Stato, ricchi premi e cotillon, una cassa con le letterine di stagno e un pezz’i lignu come torchio gli regalarono.

A questo punto, fatto il danno, bisognava ovviamente coronare la minkiata e scegliere quale avrebbe dovuto essere il sommo, il prescelto, insomma il libro primo in assoluto ad essere stampato in Sicilia. E di nuovo calci, carcagnate, tirate di capelli, sputazzate, tua madre di qua, tua madre di là.

Alla fine, con non poca fatica, il democratico sorteggio elesse come opera prima il Consuetudines Felicis Urbis Panhormi, che a dispetto del nome difficile era una raccolta di leggi municipali, conservate sin dall’alba dei tempi, sulla quale i regnanti che si intercambiavano giuravano per garantirsi una quieta convivenza con i dominati e un arruffianamento livello magister.

Purtroppo, però, ai tempi - oggi per fortuna sono tutti allittrati- chi ricopriva cariche amministrative lo faceva o perché era di famiglia importante oppure perché erano chiossai i picciuli che la scarola, con il risultato che ogni cinque, sei, cristiani uno sapeva leggere e un altro forse sapeva scrivere.

Bisognava un uomo di cultura e che masticasse di lettere per supervisionare mastro Andrea Vyel che, certo, si intendeva di stampe ma ne sapeva di legislazione quanto mio zio Aspano ne sapeva di fisica quantistica.

Per tale motivo venne convocato Giovanni Naso da Corleone, un insegnante di lettere che per un po’ di tempo aveva prestato servizio in trasferta a Napoli.

Per essere sinceri, secondo sparlamenti dell’epoca pare che la scelta fu forzata perché la "cascia" di letterine e il torchio erano proprio Giovanni Naso, che li aveva comprati a Napoli portandoli a Palermo come souvenir per lui stesso medesimo.

Ebbene, tu dai a me, io do a te, alla fine appattò la settanta e si fece in questo modo. Sembrava tutto fosse risolto ma appena mastr’Andrea si mise a stampare s’accorse che questi strumenti non erano buoni per farsi il caffè (che ancora sarebbe dovuto arrivare sempre con Colombo).

Eh, ma “chi pratica lo zoppo all’anno zoppichia” e Vyel a quel punto comprese che se voleva portare a termine il suo lavoro doveva adeguarsi alla palermitanitudine e sbrigarsela da solo.

In pratica doveva fottere nella casa del ladro. Entrò così in società con un certo Paolo de Redio riuscendogli a scroccare i soldi per l’affitto della casa, lo stipendio per il suo servitore e pure i piccioli per un torchio nuovo di zecca che mandarono a ritirare da Napoli.

Dopo tutti mali intrallazzi e vicissitudini, nel gennaio del 1478 si riuscì finalmente a stampare il primo libro di tutta la Sicilia, anticipando di tre mesi “Vita et transito et li miracoli del beatissimo Hieronimo doctore excellentissimo” (manco qua a leccate si scherza) che fu stampato il 14 aprile dello stesso anno a Messina.

Quali erano queste "Consuetudini di Palermo" lo scopriremo nel prossimo articolo, per il momento vi basti sapere che è lo stesso libro sulla quale giurò Carlo V a Palermo nel 1535 (vedi statua di Piazza Bologni con manazza protesa in avanti) e che di queste stampe ne sono rimaste solo cinque esemplari.

Il primo nella Biblioteca Centrale della Regione Siciliana, uno nella biblioteca Lucchesiana di Agrigento, un altro nella Biblioteca Nazionale di Parigi, addirittura uno nella Biblioteca Universitaria di Cambridge e l’ultimo nella Biblioteca Fardelliana di Trapani.

Ecco, questo per dire che i libri non vanno prestati perché poi non tornano più indietro.
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