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Paesaggi infuocati, mare unico e un magico borgo: la riserva tra le più antiche in Sicilia

Un'esperienza di tre giorni in un luogo protetto e splendido dell'Isola che chi viene qui non può assolutamente perdersi. Itinerari che tutti possono percorrere

Santo Forlì
Insegnante ed escursionista
  • 3 luglio 2023

Il gruppo "Camminare i Peloritani", mattiniero come solito dopo tre ore e mezza di viaggio in automobile da Messina è arrivato a Castellamare del Golfo, giusto il tempo di posare le valigie in albergo e subito in marcia verso la riserva dello Zingaro.

Fatta la fila ai botteghini, ci siamo incamminati e superata una fresca galleria che avrebbe dovuto essere l’inizio di una strada rotabile poi bloccata perché una vasta parte della pubblica opinione ha voluto impedire uno scempio ambientale, e ha fornito l’idea per la nascita della riserva tra la più antiche della Sicilia istituita il 18 maggio 1980.

Ci siamo avviati per lo stretto ma ben transennato sentiero calpestando le pietre ed una terra bruna color caffè per la ripida costa a precipizio sul mare e pertanto inaccessibile, ma in alcuni tratti formava delle insenature, le cale con delle spiaggette veramente incantevoli alla vista per il colore verde chiaro trasparente vicino alla riva delle acque che contrastava con quello blu della rimanente distesa marina.
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Anzi la delicatezza di questa magnifica tonalità risaltava contrapposta ai colori accesi della soprastante costa che sembrava sul punto di volersi incendiare. Intanto procedevamo sotto il sole, senza un filo d’ombra sul sentiero che si snodava scavando i fianchi della montagna sempre opportunamente transennato perché senza questa protezione sarebbe stato giocoforza scivolare e fare un tuffo in mare giungendoci però con le ossa ammaccate.

Lungo il sentiero c’erano tante palme nane unico elemento di verde del territorio coperto da macchie, da piante spinose, e da arbusteti senza neanche un albero capace di offrire qualche zona d’ombra. In alcuni tratti c’erano dei raggruppamenti di acanti nel pieno della loro fioritura con i loro boccioli bianchi e blu.

C’erano anche cardi gialli che punteggiavano qua e là il paesaggio ed invece intere distese di piante dello stesso tipo in piena fioritura ma di un celestino tendente al bianco una tinta straordinariamente delicata per una pianta decisamente rustica che a finirci dentro sarebbero stati dolori.

Questo non è certo un terreno per ortaggi e verdure. Ma meraviglia delle meraviglie in mezzo a tante spine, ai lati del sentiero, in mezzo a coriacei, duri ciuffi d’erba, spuntavano delle magnifiche orchidee, bellissime di un blu intenso. Ce n’erano tante, alcune distanziate qua e là, altre accolte fra di loro a formare un mazzetto. Ce n’erano di piccoline ma anche di grandi.

Qualcuna si ergeva maestosa sopra le altre facendosi ammirare in tutta la sua sfolgorante bellezza. Ma il gruppo non ha solo camminato si è pure trasformato in anfibio ed è sceso verso le cale per un rinfrescante bagno a detergere il sudore dentro le acque diafane e cristalline.

Veramente arrivarci non è stato per nulla semplice perché alla fine bisognava scendere in spiaggia su dei massi levigati viscidi perché bagnati e coperti di muschio, ma scivolando sul sedere ce l’abbiamo fatta. Veramente un refrigerio immergersi nelle fresche acque, all’inizio anche troppo ma dopo i primi brividi abbiamo apprezzato.

Se è stata difficile la discesa, ancora più ardua la risalita, ma non potevamo certo chiamare l’elicottero per tirarci su, con un po’ di pazienza, allungando una gamba il più possibile per evitare il bagnato producendoci in una sforbiciata e facendo forza con le braccia, ce l’abbiamo fatta.

Alla riserva abbiamo trascorso due giorni fra camminate e nuotate. Il terzo siamo andati a visitare Erice e l’abbiamo fatto con una guida locale, camminare per le vie di questa cittadina dà l’impressione di trovarsi in un luogo fuori dal tempo, infatti essa è completamente di stampo medioevale.

Abbiamo incominciato con la superba cattedrale che si trova all’inizio del paese e che in passato sotto i normanni ha rivestito anche una funzione difensiva, poi nel corso dei secoli è stata ingrandita ed ha avuto varie superfetazioni con l’aggiunta di stili diversi che comunque non ne hanno alterato l’originaria impronta medioevale.

Intrapresa una strada in salita abbiamo proseguito per vedere le possenti ed antichissime mura in cui su alcuni ciclopici massi si poteva leggere la Bet una lettera fenicia. Bisogna infatti ricordare che al tempo di questo dominio Erice insieme a Mozia ed a Panormus era una delle più importanti città la cui storia è ancora più antica ed è legata al misterioso popolo degli Elimi, forse discendenti dei troiani ma c’è uno scarto di alcuni secoli fra la caduta di Troia e il loro arrivo.

In prossimità delle mura si erge imponente e maestoso il castello di Venere costruito su una rupe a precipizio e praticamente inespugliabile.

Pure esso è stato costruito dai normanni ma siccome è sorto sulle rovine di un tempio dedicato alla Venere ericina, ha conservato questo nome.

Abbiamo ancora camminato lungo le mura che circondano questa cittadina arroccata in posizione molto panoramica in ragione della sua collocazione su un rilievo molto ripido, tanto che come ci ha detto la nostra guida non tutte le mura sono sorte per la difesa, ma buona parte di esse sono state costruite per impedire al territorio di franare.

Comunque dal castello si ha una meravigliosa vista, il nostro sguardo ha potuto spaziare per la sottostante pianura alluvionale comprendente Valderice e Trapani. Erice ormai ridotta ad un minuscolo borgo con 230 residenti un tempo comprendeva tanti altri territori oramai divenuti comuni autonomi come ad esempio San Vito Lo Capo.

Abbiamo continuato la nostra visita entrando in alcune pregevoli chiese in cui oltre ai dipinti, ai ricchi tabernacoli, un’altra attrattiva riguardava il pavimento costituito dalla famosa ceramica ericina semplice come disegni ma di grande effetto. Più defilate rispetto al resto del centro abitato abbiamo notato delle costruzioni colore bordeaux compatte e dallo stile severo ed abbiamo appreso che queste vengono chiamate case spagnole perché all’epoca di questa denominazione vi risiedeva la guarnigione.

Invece fuori dalle mura, su alcuni promontori rocciosi, avvolta dal verde scuro intenso di un fitto bosco di abeti, di cipressi e di pini emerge la chiara torretta Pepoli in stile eclettico che ha tutta l’aria di un’apparizione fiabesca. Essa è di una raffinata eleganza, perfino le rocce del promontorio su cui essa sorge perfettamente pulite, chiare e regolari risultano intonate col resto del palazzo che prende il nome dal conte Pepoli, un insigne naturalista mecenate di fine ottocento che l’ha fatto edificare per farne un ritiro spirituale per dedicarsi alle sue osservazioni e ai suoi studi.
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