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Pensateci prima di posteggiare: un giorno (in carrozzina) a Palermo e la rabbia di Federica

Sono passati più di 4 mesi dal giorno in cui il Comune prometteva di rendere la città a misura di tutti, eppure non si vedono ancora i risultati sperati e ogni giorno è una fatica

  • 1 maggio 2021

Federica Ingrassia

Dovevano servire a rendere gli spazi pubblici del nostro Paese accessibili a tutti e Palermo non poteva essere da meno, tanto che a dicembre del 2020 il Consiglio comunale ha approvato l’ordine del giorno che impegnava la Giunta ad adottarli entro un anno.

Parliamo dei P.E.B.A., Piani di Eliminazione delle Barriere Architettoniche. Introdotti in Italia nel 1986 con la Legge 41/86 e integrati con la Legge 104/92, oltre a classificare e monitorare le barriere architettoniche, i Piani contengono le proposte progettuali per l’eliminazione di ciascuna barriera, la stima dei costi di ogni intervento e le priorità su cui lavorare.

Sono passati oltre quattro mesi dal giorno in cui il Comune prometteva di rendere la città a misura di tutti, eppure non si vedono ancora i risultati sperati.

Lo sa bene Federica Ingrassia, una psicologa che da quando è piccola lotta contro una città che non le garantisce il diritto alla mobilità.

È lei l'autrice dell’appello che circola in questi giorni su Facebook grazie all’associazione Vorrei prendere il treno e con il quale lancia un grido d’aiuto dopo avere rischiato di perdere la vita.
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«Sono una ragazza in carrozzina e qualche settimana fa ho avuto un incidente insieme a mia madre, uscendo dal luogo dove svolgo un tirocinio» - inizia così la sua accorata rimostranza -. Siamo state investite perché non mi trovavo sul marciapiede ma sulla strada, data l'impossibilità di percorrerlo in quanto fortemente sconnesso, pieno di buche e talmente stretto da non permettere alla carrozzina di starci».

Federica ha trent’anni e purtroppo non è nuova a episodi del genere. Già a tredici anni, durante una gita scolastica, è caduta a causa di una buca, rompendosi entrambi i femori e rimanendo ingessata per sessanta giorni, con conseguenze sulla scoliosi e sulle retrazioni. Non pensava però che, ben diciassette anni più tardi, avrebbe dovuto rivivere un’esperienza così dolorosa per una colpa non sua, costretta peraltro a interrompere anche i suoi progetti lavorativi.

«Ero in via Perpignano. I miei genitori mi avevano sconsigliato di svolgere il tirocinio in quella zona perché quella strada è davvero pericolosa, ma io non ho voluto rinunciare perché per me è un’opportunità di lavoro e lo reputo un mio sacrosanto diritto. Così ho rischiato.

E mi è andata male perché un’auto mi ha preso in pieno, facendomi ribaltare con tutta la carrozzina. Ho subito un trauma cranico, ho sbattuto tutto il corpo e mi sono rotta il pavimento orbitale, ma non posso sottopormi a un intervento chirurgico perché sarebbe rischioso. Così devo aspettare sei mesi e sperare che non ci siano ripercussioni visive ed estetiche».

Una scala, un gradino, una discesa troppo ripida. E poi ancora la mancanza di scivoli, di pedane per entrare nei negozi o per salire su un autobus, i camerini non a norma o pieni di merce che non ne permettono l’utilizzo, i marciapiedi assenti o divelti, stretti, con dei pali, cestini e aiuole in mezzo.

Ogni giorno per Federica è una fatica e quello che è quotidianità per molti, per lei non lo è. Non per via della sua condizione, cui è abituata fin da piccola, ma perché l’ambiente esterno le pone davanti ostacoli che a volte diventano insormontabili, minando ciò che dovrebbe essere garantito a tutti senza se e senza ma: il diritto a muoversi autonomamente.

Una sensazione che ha potuto provare soltanto a ventotto anni, quando si è trasferita a Padova per laurearsi in Neuroscienze e Riabilitazione Neuropsicologica e che, una volta tornata a casa, non ha mai più provato nuovamente. Lì è uscita da sola per la prima volta e per la prima volta ha sperimentato l’ebbrezza di prendere un autobus.

«Ricordo ancora la sensazione di libertà che ho vissuto» - racconta felice - «Una sensazione che mi ha fatto prendere aria perché mi sono sentita meno disabile, indipendente, ho capito che si fare una semplice uscita anche senza dover calcolare tutto in anticipo e nei minimi dettagli».

Già, perché Federica non può decidere all’ultimo momento se andare a fare una passeggiata, a comprare un vestito o prendere una birra con un amico. Non perché non voglia, ma perché Palermo glielo impedisce.

Glielo impediscono le Amministrazioni che si sono susseguite nel tempo e che non hanno pensato ai P.E.B.A. I concittadini che, noncuranti, parcheggiano sui quei pochi scivoli in città o nel posto riservato a chi ha una disabilità. I commercianti che non rispettano le norme rendendo il proprio negozio inaccessibile.

Glielo impedisce, insomma, un centro urbano che si trasforma costantemente in una trappola, con barriere architettoniche diffuse e insidiose. D’altronde, lei ne è convinta, «la disabilità sono gli altri che la costruiscono, non la disabilità stessa. Perché se la città fosse accessibile, non esisterebbe diversità e sarebbe tutto decisamente molto più semplice».

Non solo per Federica, ma anche per le persone che le stanno intorno e nei confronti delle quali spesso si sente «un peso».

Un peso che si trasforma in profondo fastidio quando sente frasi del tipo “Peccato, sta bedda figghia!” o si trova davanti a una madre che porta via il proprio bimbo curioso, quasi come se fosse una vergogna spiegare ai più piccoli che c’è chi ha le gambe e chi, come gambe, ha una carrozzina.

«La disabilità è ancora un tabù, e invece educare alla disabilità è importante. Bisogna parlarne e farlo il più possibile. Farlo nelle scuole con testimonianze dirette e insegnare alle nuove generazioni che esistono varie alternative», perché forse solo così si potranno creare città a misura di tutti.

Federica è sconfortata e arrabbiata allo stesso tempo, lo si percepisce dalla sua voce affranta. Non capisce perché «debba essere limitata nei movimenti e nella scelta delle cose da fare a causa di Istituzioni che non si prendono la responsabilità di cambiare le cose», perché abbia dovuto sudare più degli altri per costruire la propria vita, studiare, laurearsi e diventare chi è oggi.

Però non si arrende e lo fa per tutti quei bambini che non possono giocare in parco giochi con altalene accessibili o per quegli studenti che rinunciano a frequentare l’università perché le aule non glielo permettono. Non ha ancora pensato di andare via ma, dopo l’ultimo incidente, si è detta di «avere il diritto a essere felice» e per questo vuole trovare il posto che glielo permetta.

Ma perché non può essere Palermo? È quello che si chiede una ragazza che vuole soltanto poter camminare verso i suoi sogni e che spera che un giorno non troppo lontano l’Amministrazione agisca sul serio e non semplicemente a parole.
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