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Prevedeva il futuro tra i vicoli di Palermo: il vecchio con la barba chiamato Ciràulo

Era magro, con la pelle bruciata dal sole e la barba lunga, vestito di stracci, sembrava un pellegrino o meglio uno di quei santoni che la leggenda narrava mangiassero vetri

  • 19 agosto 2019

Un'antica foto del Mercato della Vucciria a Palermo

«Ciràulu! Ciràulu!» gridava un bambino che correva a perdifiato tra vicoli e cortili per annunciarne l’arrivo.

Chi udiva il richiamo, giovane o adulto che fosse, lasciava, se poteva, la propria occupazione e si avviava in piazza per godersi lo spettacolo. I Ciràuli avevano percorso ogni strada e visitato tutti i paesi, avevano come bagagli solo le loro gabbie di serpi.

«Ciràulu! Ciràulu!» continuava a gridare il bambino, mentre gli abitanti del quartiere prendevano posto a piazza San Domenico. Arrivavano dalla Cala, da piazza Tarzanà e dalla Fonderia, ma anche dalla via Bandiera e dalla via San Basilio, alcuni avevano cassette di legno per potersi sedere, i più piccoli si arrampicavano sulla colonna in cima alla quale stava la statua dell’Addolorata.

Il Ciràulo era seduto a gambe incrociate al centro del cerchio umano che si era formato. Aveva davanti a sé le quattro gabbie allineate.
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Era magro, con la pelle bruciata dal sole e la barba lunga, vestito di stracci, sembrava essere un pellegrino o meglio uno di quei santoni che la leggenda narrava mangiassero vetri, dormissero sui chiodi e avessero come casa le strade polverose di un paese lontano, dove le vacche erano considerate sacre.

Quando si mise dritto in piedi e alzò le braccia al cielo, la folla si zittì. Aprì la prima gabbia e ne tirò fuori una grande serpe, lunga più di un metro. La teneva in aria stringendola tra la testa e il resto del viscido corpo. A vedere l’animale, un “Oh!” misto di stupore e paura passò di bocca in bocca. Con gesti sapienti lo avvolse attorno al braccio sinistro; prese un’altra serpe che pareva essere gemella alla prima e l’attorcigliò sul braccio libero. Alzò arti e rettili in alto e il batter di mani dei presenti scoppiò fulmineo.

Si avvicinò alla terza gabbia e ne estrasse un rettile poco più piccolo dei precedenti e con fare ancora più solenne se lo girò al collo a mo’ di sciarpa. Le donne fecero dei gridolini di spavento, i ragazzi allargarono ancor più gli occhi, gli uomini si guardarono abbassando gli angoli della bocca in segno di approvazione. La tensione era giunta al suo punto più alto, giusto in tempo per il gran finale. Il Ciràulo sbottonò la camicia lisa che indossava, mostrando il torace scheletrico e aprì l’ultima gabbia.

Prese tra le dita, come un flauto, una serpe lunga poco più di un palmo, nera come la morte. Si guardò intorno e trasformò l’animale da flauto a pugnale e se lo pianto in petto. Tra il pubblico ci fu chi si coprì con le mani il volto, chi gridò e un paio svennero.

Il serpentello, come lo scorpione che doveva attraversare il fiume sul dorso del rospo nella famosa fiaba, non poté far a meno di seguire la propria natura e conficcò i denti. Per un attimo, a tutti parve di vedere il Genio di Palermo, non più statua, come d’abitudine, ma incantatore di serpenti.

Il Ciràulo chiuse gli occhi e strinse i denti, così forte che quelli delle prime file sentirono il loro stridere. Quando li riaprì fece un profondo respiro, poi lentamente ripose il serpente più piccolo nella gabbia, e lo stesso fece con gli altri, dopo averli srotolati. Gli uomini, le donne e i bambini che fino ad allora aveva trattenuto nei polmoni l’aria e tenuto gli occhi sbarrati, liberarono la tensione con uno scrosciante applauso.

Il Ciràulo fece un teatrale inchino e cadde con la faccia a terra, privo di sensi. Dapprima non si riuscì a intendere se lo spettacolo proseguisse in quel modo o se si fosse passati dalla recita alla vita, o alla morte in quel caso.

L’uomo continuava a restare immobile, presto il panico dilagò e ci fu un fuggi fuggi che disperse la maggior parte delle persone. I più coraggiosi si avvicinarono al corpo, girandolo videro il viso cianotico, il respiro tanto esile da sembrare assente.

«Da Garrillo! Da Garrillo! Portatelo da Garrillo», disse un vecchio che si trovava lì.
Due giovani lo presero sotto le spalle e facendo forza per alzarlo quasi lo lanciarono in aria: era ancora più leggero di quanto l’esile aspetto mostrasse.
La bottega era a meno di un tiro di schioppo; Garrillo era dietro il banco.
«È finito lo spettacolo?», chiese vedendoli entrare.
«Presto, sta morendo, sta morendo», disse uno dei due sconvolto.
«Quando San Paolo andò a Malta venne assalito da una vipera, che lo morse a un dito senza fargli nessun male», iniziò a raccontare il farmacista. «Si dice che chi nasce nella notte in cui si commemora il santo, può toccare senza danno la vipera, l’aspide, la biscia, il calabrone, lo scorpione, il rospo, il ragno ed altri rettili ed insetti velenosi. Ma trattandosi di nascite notturne, alcuni fanno confusione se prima o dopo la mezzanotte», disse facendo segno con la testa verso il moribondo.
I due portantini si guardarono increduli: ma che modo di perder tempo era quello, un uomo era prossimo alla morte e l’unico in grado di salvarlo raccontava storielle?
«Forse non ha capito…».
«Ho capito, ho capito», disse Garrillo e girandogli le spalle attraversò una porta bassa che dava su un magazzino nel retro. Tornò qualche minuto dopo con in mano una boccetta.
«Questo è l’antidoto: genuina Terra di San Paolo, proveniente da Malta».
I due si affrettarono a farla ingurgitare all’uomo che tenevano ancora in spalla.

«Saprete, di certo, che una delle più alte qualità del Ciràulo è indovinare le cose che dovranno avvenire. La gente si rivolge a lui come oracolo infallibile. Il popolo ha contrapposto alla sua figura quella di re Salomone, personificazione in terra della Sapienza; infatti, dove arriva l’indovino non può farlo il sapiente», disse. «Dove può arrivare la saggezza popolare…» concluse ironico Garrillo, mentre il girovago si stava già riprendendo.

Il racconto è tratto dal libro "Via Terra delle Mosche" edito da Il Palindromo.
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