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Quella volta che i palermitani trasformarono il piano della Cattedrale in campo di bocce

Cittadini e vicerè sono i protagonisti di questo racconto di Gioacchino Lonobile: tra offese e giustizia in pubblica piazza torniamo indietro a un tempo in bianco e nero

  • 22 dicembre 2018

La cattedrale di Palermo (foto del 1929)

Quella mattina del 14 settembre 1747, sul piano della Cattedrale, c'era chi aveva scambiato il suolo pubblico per bene privato, occupando la piazza, che la gente di solito usava per sé, come campo di bocce.

L'uomo con le gambe divaricate, allungò il braccio dietro la spalla e lo fece roteare in avanti, giunto all'altezza della faccia, venne bloccato, un attimo prima che lasciasse la sfera.

Erano su di lui quattro guardie giunte per arrestarlo. Seppur milite di Sua Maestà, la legge era uguale anche per lui, anzi ancor più per lui.

La notizia arrivò presto in caserma e scalò, tra lo sgomento, le gerarchie, fino al colonnello maresciallo di campo.

«Che modi sono questi?» gridò sbattendo una mano sul tavolo. Si dovevano prendere provvedimenti a quella mancanza di rispetto. L'ordine fu chiaro: un drappello sarebbe andato a far visita alla casa del capitano di città, mentre altri cento soldati armati di bastone dovevano girare per le strade a picchiare quante più guardie incontrassero.
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Negli stessi momenti, Don Diego Giardina faceva i complimenti ai suoi uomini per l'arresto compiuto.

Il popolo ignaro di quello che stava avvenendo, per una sorta di antipatia atavica che aveva nei confronti dei birri, a vederli malmenati e bastonati, assisteva allo spettacolo sghignazzando.

Il console dei calderai, invece, venuto a conoscenza di quelle violenze, che gettavano discredito sulla città, fece chiamare il tamburino che, con il suo rollio per le strade, allertò la maestranza.

I fabbri, lasciati martelli e caldaie, insieme agli scoppiettieri archibugi a tracolla e ad altri ancora si ritrovarono al palazzo pretorio, pronti a mettere in riga i soldati, i quali annusando la puzza di bruciato si erano dileguati.

Il pretore, che era il principe di Lampedusa, rassicurò le maestranze e scrisse al viceré, mentre Don Diego Giardina, caduto l'assedio al suo palazzo, si recò di persona dalla più alta carica dell'isola.

Il viceré sentiti i fatti, fu il terzo, che in quella lunga giornata che pareva non aver fine, disse: «Che modi sono questi?».

Il colonnello maresciallo di campo, convocato, arrivò di corsa pronto a ricevere i complimenti per come aveva difeso l'onore dell'esercito di Sua Maestà, non sospettando ciò che lo aspettava.

«Lei mi suscita una rivoluzione per una partita a bocce? Ma è forse impazzito?» disse il viceré, e dopo aver intimato al militare e agli altri ufficiale l'esilio, si fece dire il nome di tutti i soldati rei. Cinquanta vergate l'uno, in pubblica piazza, li aspettavano.

Il giorno successivo una gran folla si era radunata al piano della Cattedrale per vedere eseguire la pena. Le bastonate calavano veloci sulle schiene nude, ma seppur parevano feroci, non risultavano altrettanto efficaci, non lasciando alcun segno.

Girava voce, infatti, che il viceré era stato lesto a trovar giustizia, ma aveva chiesto a chi aveva il compito di frustare, di farlo con giudizio. Tanto che uno dal pubblico disse: «Che modi sono questi?».

Ecco il racconto è tratto da una cronaca di Luigi Natoli.
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