Sono padre e figlio, li vedi insieme in Màkari: Tuccio e Claudio paladini della Sicilia
Ci sono uomini che portano l'Isola dentro come un tatuaggio. E attori che l’hanno raccontata, trasformata, resa eterna con la voce, il teatro e il cinema. Le interviste
Tuccio e Claudio Musumeci
Ci sono uomini che portano la Sicilia dentro come un tatuaggio indelebile. Ci sono attori come Tuccio Musumeci che l’hanno raccontata, trasformata, resa eterna con la voce, la mimica, il teatro e il cinema. E poi c’è la generazione di chi è cresciuto fra quinte e camerini, respirando lo stesso amore - quella di Claudio, suo figlio.
Abbiamo avuto la fortuna di incontrarli entrambi, per restituire ai lettori di Balarm la loro verità viva e sincera. Oggi Tuccio Musumeci non è solo un nome nel firmamento del teatro e del cinema italiano: è un pezzo di storia vivente, un custode della memoria culturale siciliana e italiana, un uomo capace di raccontare la propria terra con ironia, affetto e un pizzico di autocritica che fa sorridere e riflettere insieme. Musumeci, insieme a suo figlio Claudio, sono due attori appartenenti a epoche diverse, abbiamo ascoltato le loro parole che mostrano come l’amore per la Sicilia e per la recitazione possa attraversare generazioni.
«Dunque io alla Sicilia sono molto affezionato, ma ci ho vissuto poco. La cosa bella è questa: quando uno ha vissuto poco nella sua terra proprio per questo prova affezione. Da ragazzino abitavo a Modena, perché l’ultimo anno di scientifico gli esami li ho fatti a Mantova e poi mi sono iscritto medicina lì, dove mio zio era direttore di cattedra dell’anatomia patologica. Proprio mio zio a Modena mi ha costretto a vedere ogni mattina un’autopsia, era una cosa ottima, perché avevo la possibilità di guardare e capire. Oggi è tutto sui libri spiegato invece lì si vedeva dal vivo e non mi "faceva impressione", a me appassionava».
Quel sentimento -la nostalgia della propria terra - è la radice che, secondo lui, ha finito per definire la sua sicilianità d’attore: un modo di essere, di parlare, di stare sul palco che nessuna scuola può insegnare del tutto. Poi Tuccio ci racconta come la Sicilia e il teatro si intrecciano nel suo percorso, creando un legame che va oltre la memoria geografica, che tocca la gestualità, i modi di dire, la capacità unica di raccontare la propria terra attraverso la scena. «Il mio primo spettacolo è stato "L’eroe di Auschwitz", dove fece parte di una giovanissima compagnia di "salesiani" dilettanti. Eravamo tutti dei monaci e dovevamo essere fucilati. Io volevo fare l’attore drammatico, impegnato ma la gente sorrideva in sala, questo mi dava un fastidio tremendo. Però succedeva anche nelle scene iniziali che noi facevamo, la gente rideva o come mi giravo io o l’espressione che facevo… - e con un sorriso aggiunge - sono stato il primo a essere fucilato».
Ed è in quel fastidio - in quella consapevolezza di non piacere come “attore drammatico siciliano perfetto” - che Tuccio capì che forse il suo destino era un altro: quello del grottesco, del comico, del teatro che tocca corde profonde attraverso la risata. Tuccio ha attraversato epoche e stili: dal teatro popolare ai grandi set, dal cabaret all’avanspettacolo, fino al cinema epico e alla serialità contemporanea.
In quel percorso resta un filo rosso: la Sicilia, con le sue contraddizioni, la sua comicità, la sua malinconia. Dunque, la carriera di Tuccio non si limita ai grandi set del passato. Recentemente l’abbiamo visto in Makari, dove il teatro e il cinema si fondono in una nuova esperienza: «In sostanza sono due cose diverse teatro e tv. In Makari tutto lo staff è diventato come una famiglia, ora dovremmo fare la quinta serie. Invece il teatro è diverso, all’età mia il teatro mi pesa, ci sono più di un mese di prove. Ecco perché penso di abbandonatre il teatro. Ora dico va bene solo a Napoli potrei fare il Cappello di carta, ma non so».
L’epoca d’oro del teatro siciliano emerge anche nei suoi ricordi del Teatro Stabile di Catania dove nel 1978 intepreto Pipino il Breve, quando il Direttore era mario Giusti e del Teatro Biondo di Palermo: «Sono stato a Palermo al Biondo per quattro anni, era uno dei più grandi teatri stabili in Sicilia. Molte tournée abbiamo fatto e con il pubblico era tutto un grande affetto. Prima, parlando anche dei giovani, era difficile fare l’attore, oggi è impossibile. Si figuri che Pippo Baudo ed io ci siamo presentati da ragazzi al concorso due volte alla Rai…». E non mancano i ricordi più leggeri e personali: «Con lo stipendio de Il Gattopardo ho comprato l’anello di fidanzamento alla mia prima moglie, poi mi sono sposato una seconda volta… sono un cretino!».
A raccontare la quotidianità e il mondo privato di Tuccio, c’è Claudio, che osserva con attenzione il padre come uomo oltre che come artista: «È camorriuso perché è del segno dell’ariete. È molto spigoloso, litiga spesso con mia mamma, è più naturale a casa, molto volubile, anche nevrotico, malinconico e soffre questa epoca digitale. I social hanno alienato l’essere umano. Il libro “Tuccio l’eterno” ha reso fuori il lato malinconico di mio padre, soprattutto per quanto riguarda la sua giovinezza e i suoi inizi con Pippo Baudo…».
Claudio racconta anche la sua esperienza personale, la strada artistica che lo ha portato a vivere tra teatro, cinema e televisione: «Sul set di Makari non ho lavorato direttamente con lui. Ho condiviso con altri attori questa esperienza. E proprio in questa circostanza mi sono accorto che c’era un’aria di famiglia. In passato ho avuto una parentesi come pilota in America, poi ho interrotto e continuato col teatro. La mia strada è mia, la sto costruendo io, non ho avuto nulla perchè figlio di…». E se c’è un insegnamento centrale che Claudio custodisce di suo padre Tuccio, lo dice chiaramente: «Lui è generoso. Più con gli altri, non ha mai fatto mancare nulla alla famiglia. È sempre vicino al pubblico ed io voglio custodire e trasmettere questa generosità».
Il percorso di Claudio include anche esperienze internazionali di rilievo: «A New York ho studiato alla Strasberg Theater Film Institute, la grande scuola fondata proprio dagli Strasberg. Mio grande maestro è stato Romano Bernardi, grande regista che ha lavorato con mio padre. Ma tra tutti gli insegnanti uno per eccellenza, il più grande insegnante è mio padre».
Un legame che unisce padre e figlio, passato e futuro, teatro e cinema, Sicilia e mondo. Tra le righe del libro “Tuccio l’eterno” di Valerio Musumeci, e nelle parole di Claudio, emerge un ritratto straordinario: Tuccio Musumeci è memoria storica e contemporanea, sorriso e riflessione, Sicilia raccontata con leggerezza e profondità. La sua storia, i suoi ruoli, il suo cinema, dal segretario comunale ne Il Gattopardo alle grandi commedie del teatro, costituiscono un filo che attraversa decenni di spettacolo italiano, conservando il gusto della vita, della famiglia e della propria terra.
E forse è questa la vera filosofia di Tuccio: l’idea che essere siciliano non significa essere incatenati al passato, ma portare dentro - con generosità e onestà -una radice che non invecchia. Un padre che ha raccontato la Sicilia con ironia e malinconia; un figlio che la racconta con voce nuova, coraggio, speranza. Due generazioni diverse, ma unite da un unico cuore palpitante: quello di una terra che vive nella memoria e nell’arte. Insieme, Tuccio e Claudio ci ricordano che il teatro non è solo scena, ma vita, memoria e passione. Che il cinema può essere un racconto della Sicilia, e che l’eredità più preziosa è quella che si custodisce nel cuore, nei gesti, nelle parole. E se il teatro a volte pesa, il ricordo, l’arte e il legame tra padre e figlio restano, vivi, incandescenti, immortali.
Abbiamo avuto la fortuna di incontrarli entrambi, per restituire ai lettori di Balarm la loro verità viva e sincera. Oggi Tuccio Musumeci non è solo un nome nel firmamento del teatro e del cinema italiano: è un pezzo di storia vivente, un custode della memoria culturale siciliana e italiana, un uomo capace di raccontare la propria terra con ironia, affetto e un pizzico di autocritica che fa sorridere e riflettere insieme. Musumeci, insieme a suo figlio Claudio, sono due attori appartenenti a epoche diverse, abbiamo ascoltato le loro parole che mostrano come l’amore per la Sicilia e per la recitazione possa attraversare generazioni.
«Dunque io alla Sicilia sono molto affezionato, ma ci ho vissuto poco. La cosa bella è questa: quando uno ha vissuto poco nella sua terra proprio per questo prova affezione. Da ragazzino abitavo a Modena, perché l’ultimo anno di scientifico gli esami li ho fatti a Mantova e poi mi sono iscritto medicina lì, dove mio zio era direttore di cattedra dell’anatomia patologica. Proprio mio zio a Modena mi ha costretto a vedere ogni mattina un’autopsia, era una cosa ottima, perché avevo la possibilità di guardare e capire. Oggi è tutto sui libri spiegato invece lì si vedeva dal vivo e non mi "faceva impressione", a me appassionava».
Quel sentimento -la nostalgia della propria terra - è la radice che, secondo lui, ha finito per definire la sua sicilianità d’attore: un modo di essere, di parlare, di stare sul palco che nessuna scuola può insegnare del tutto. Poi Tuccio ci racconta come la Sicilia e il teatro si intrecciano nel suo percorso, creando un legame che va oltre la memoria geografica, che tocca la gestualità, i modi di dire, la capacità unica di raccontare la propria terra attraverso la scena. «Il mio primo spettacolo è stato "L’eroe di Auschwitz", dove fece parte di una giovanissima compagnia di "salesiani" dilettanti. Eravamo tutti dei monaci e dovevamo essere fucilati. Io volevo fare l’attore drammatico, impegnato ma la gente sorrideva in sala, questo mi dava un fastidio tremendo. Però succedeva anche nelle scene iniziali che noi facevamo, la gente rideva o come mi giravo io o l’espressione che facevo… - e con un sorriso aggiunge - sono stato il primo a essere fucilato».
Ed è in quel fastidio - in quella consapevolezza di non piacere come “attore drammatico siciliano perfetto” - che Tuccio capì che forse il suo destino era un altro: quello del grottesco, del comico, del teatro che tocca corde profonde attraverso la risata. Tuccio ha attraversato epoche e stili: dal teatro popolare ai grandi set, dal cabaret all’avanspettacolo, fino al cinema epico e alla serialità contemporanea.
In quel percorso resta un filo rosso: la Sicilia, con le sue contraddizioni, la sua comicità, la sua malinconia. Dunque, la carriera di Tuccio non si limita ai grandi set del passato. Recentemente l’abbiamo visto in Makari, dove il teatro e il cinema si fondono in una nuova esperienza: «In sostanza sono due cose diverse teatro e tv. In Makari tutto lo staff è diventato come una famiglia, ora dovremmo fare la quinta serie. Invece il teatro è diverso, all’età mia il teatro mi pesa, ci sono più di un mese di prove. Ecco perché penso di abbandonatre il teatro. Ora dico va bene solo a Napoli potrei fare il Cappello di carta, ma non so».
L’epoca d’oro del teatro siciliano emerge anche nei suoi ricordi del Teatro Stabile di Catania dove nel 1978 intepreto Pipino il Breve, quando il Direttore era mario Giusti e del Teatro Biondo di Palermo: «Sono stato a Palermo al Biondo per quattro anni, era uno dei più grandi teatri stabili in Sicilia. Molte tournée abbiamo fatto e con il pubblico era tutto un grande affetto. Prima, parlando anche dei giovani, era difficile fare l’attore, oggi è impossibile. Si figuri che Pippo Baudo ed io ci siamo presentati da ragazzi al concorso due volte alla Rai…». E non mancano i ricordi più leggeri e personali: «Con lo stipendio de Il Gattopardo ho comprato l’anello di fidanzamento alla mia prima moglie, poi mi sono sposato una seconda volta… sono un cretino!».
A raccontare la quotidianità e il mondo privato di Tuccio, c’è Claudio, che osserva con attenzione il padre come uomo oltre che come artista: «È camorriuso perché è del segno dell’ariete. È molto spigoloso, litiga spesso con mia mamma, è più naturale a casa, molto volubile, anche nevrotico, malinconico e soffre questa epoca digitale. I social hanno alienato l’essere umano. Il libro “Tuccio l’eterno” ha reso fuori il lato malinconico di mio padre, soprattutto per quanto riguarda la sua giovinezza e i suoi inizi con Pippo Baudo…».
Claudio racconta anche la sua esperienza personale, la strada artistica che lo ha portato a vivere tra teatro, cinema e televisione: «Sul set di Makari non ho lavorato direttamente con lui. Ho condiviso con altri attori questa esperienza. E proprio in questa circostanza mi sono accorto che c’era un’aria di famiglia. In passato ho avuto una parentesi come pilota in America, poi ho interrotto e continuato col teatro. La mia strada è mia, la sto costruendo io, non ho avuto nulla perchè figlio di…». E se c’è un insegnamento centrale che Claudio custodisce di suo padre Tuccio, lo dice chiaramente: «Lui è generoso. Più con gli altri, non ha mai fatto mancare nulla alla famiglia. È sempre vicino al pubblico ed io voglio custodire e trasmettere questa generosità».
Il percorso di Claudio include anche esperienze internazionali di rilievo: «A New York ho studiato alla Strasberg Theater Film Institute, la grande scuola fondata proprio dagli Strasberg. Mio grande maestro è stato Romano Bernardi, grande regista che ha lavorato con mio padre. Ma tra tutti gli insegnanti uno per eccellenza, il più grande insegnante è mio padre».
Un legame che unisce padre e figlio, passato e futuro, teatro e cinema, Sicilia e mondo. Tra le righe del libro “Tuccio l’eterno” di Valerio Musumeci, e nelle parole di Claudio, emerge un ritratto straordinario: Tuccio Musumeci è memoria storica e contemporanea, sorriso e riflessione, Sicilia raccontata con leggerezza e profondità. La sua storia, i suoi ruoli, il suo cinema, dal segretario comunale ne Il Gattopardo alle grandi commedie del teatro, costituiscono un filo che attraversa decenni di spettacolo italiano, conservando il gusto della vita, della famiglia e della propria terra.
E forse è questa la vera filosofia di Tuccio: l’idea che essere siciliano non significa essere incatenati al passato, ma portare dentro - con generosità e onestà -una radice che non invecchia. Un padre che ha raccontato la Sicilia con ironia e malinconia; un figlio che la racconta con voce nuova, coraggio, speranza. Due generazioni diverse, ma unite da un unico cuore palpitante: quello di una terra che vive nella memoria e nell’arte. Insieme, Tuccio e Claudio ci ricordano che il teatro non è solo scena, ma vita, memoria e passione. Che il cinema può essere un racconto della Sicilia, e che l’eredità più preziosa è quella che si custodisce nel cuore, nei gesti, nelle parole. E se il teatro a volte pesa, il ricordo, l’arte e il legame tra padre e figlio restano, vivi, incandescenti, immortali.
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