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Anche Palermo aveva il suo Cupolone: storia di una "meravigghia" che oggi non c’è più

Primeggiava su quelle di tutte le altre chiese di Palermo e con lui è scomparso anche un modo di dire che recitava: "È quantu a cupola di San Giuliano"

Maria Oliveri
Storica, saggista e operatrice culturale
  • 24 luglio 2023

La cupola di San Giuliano e la posa della prima pietra del Teatro Massimo (1875)

Dalle terrazze del centro storico di Palermo si può ammirare un panorama unico, che abbraccia con lo sguardo tetti di tegole antiche, slapite dalla pioggia e dal sole.

Antiche torri medievali come quella di San Nicolò o alti campanili settecenteschi come quello della chiesa di Santa Maria in Valverde; grandi cupole maiolicate come quelle delle chiese di San Giuseppe de’ Teatini, del Carmine Maggiore e di casa Professa; oppure rutilanti ed esotiche cupolette di manifattura islamica, come quelle della chiesa di San Cataldo o di San Giovanni degli Eremiti.

Purtroppo non svetta più nel cielo del capoluogo la colossale cupola della chiesa di San Giuliano, distrutta alla fine dell’Ottocento: un tempo, quando si voleva fare riferimento a qualcosa di particolarmente grande, si usava paragonarla proprio all’enorme cupolone e si diceva "È quantu a cupola di San Giuliano!"

Il modo di dire è oggi scomparso, così come il complesso conventuale.
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La chiesa di San Giuliano e l’annesso monastero di vergini teatine sotto il titolo dell'«Immacolata Concezione» sorgevano in vicinanza della Strada Nuova (Via Maqueda) e di Porta Maqueda. Dell’edificio religioso resta oggi solo qualche testimonianza fotografica in bianco e nero, che ce ne restituisce un’immagine sbiadita.

La chiesa di San Giuliano esisteva già nel XIV secolo ed era stata fondata come l’omonima confraternita nel 1346. Aveva diversi altari e sul soffitto erano stati affrescati - nel 1568 - i 12 apostoli ed altri santi.

Apparteneva all’antica chiesa un delizioso cortile con alberi, che sarebbe stato successivamente inglobato all’interno del seicentesco monastero femminile teatino.

In questo giardino era stata celebrata una fastosa incoronazione del pittore, poeta e oratore palermitano Francesco Potenzano (1552-1601) - una vera celebrità del suo tempo - durante il governo del vicerè Marco Antonio Colonna. Il monastero teatino di San Giuliano in principio nacque come conservatorio di fanciulle.

La storia è piuttosto complessa: nel 1647, anno segnato dalla rivolta del pane, guidata da Nino La Pelosa, venne esposto nella chiesa di San Giuseppe dei teatini il crocifisso della cattedrale. I devoti pregavano perché le violenze che affliggevano la città avessero fine.

La folla aveva infatti messo a ferro e fuoco la città, assaltando anche le carceri della Vicaria e i palazzi dei ministri spagnoli. Cinquanta vergini, scalze, coronate di spine e con la faccia velata e una palma in mano, sfilarono davanti al crocifisso, cantando delle litanie e invocando l’aiuto di Dio.

Le “vergini donzelle” appartenevano a un conservatorio di fanciulle, istituito solo sette anni prima, nel 1640 dal sacerdote teatino Don Pietro Giardina.

Giardina aveva salvato nel 1640 alcune graziose fanciulle, orfane e prive di mezzi, che rischiavano di perdersi e finire sul marciapiede, accogliendo tutte in una casa messa a disposizione da una devota, in via dei Giupponari.

Successivamente le fanciulle, grazie a una donazione di Donna Melchiora, sorella del sacerdote Giardina, si erano trasferite in un’altra abitazione. In principio le fanciulle erano otto, poi il numero era cresciuto fino a cinquanta e la casina era diventata insufficiente, così le ragazze si erano spostate prima in via Divisi, poi in un appartamento contiguo alla chiesa di S. Giovanni la Guilla dei cavalieri Gerosolimitani.

Adesso desideravano trasferirsi nella chiesa di San Giuliano, come “figlie” della madre suor Orsola Benincasa (n.d.r. fondatrice della Congregazione delle romite dell'Immacolata Concezione di Maria Vergine).

Impietositosi dal gesto compiuto dalle “vergini donzelle” davanti al crocifisso della cattedrale, Don Tommaso Potomìa, beneficiale della chiesa di San Giuliano, decise di concedere all’istituto di padre Giardina l’edificio religioso e riuscì a convincere anche i membri della confraternita a confermare la concessione.

Le nobili monache del vicino monastero delle Stimmate ovviamente protestarono e si opposero con veemenza, perché anche loro desideravano entrare in possesso della trecentesca chiesa di San Giuliano, per ingrandire il loro convento.

Si fecero molti ricorsi, ma alla fine la chiesa, la casa e il chiostro (con facoltà di mettervi grate, come monastero) furono assegnati alle fanciulle orfane.

Nel 1647 Donna Francesca Aragona, principessa di Roccafiorita aveva stabilito di destinare ai teatini ventimila scudi, per realizzare un monastero, ma sopravvenuta all’improvviso la morte della principessa, i sacerdoti Pietro Giardina e Francesco Maria Maggio, pur di non perdere la donazione, decisero di trasformare l’istituto delle “vergini donzelle” di San Giuliano in monastero.

Vennero scelte allora tra le orfane alcune fanciulle, per prendere il velo e monacarsi: ragazze non di nobile lignaggio, ma di ceto mercantile e di “eminente virtù” (così come aveva disposto anche la principessa). Il 5 Marzo 1651 le prescelte ricevettero da Monsignor D. Diego Garsìa de Tresmiera, l’ Inquisitore generale che aveva sedato la rivolta del pane in città, e dalla madre superiora, l’abito teatino.

Successivamente vennero acquistate alcune case contigue alla chiesa, per ingrandire il monastero e così si realizzarono dormitori, coro, parlatorio.

Il 29 ottobre del 1677 con la bolla del Pontefice Innocenzo XI, il monastero teatino di San Giuliano otteneva la clausura, condizione indispensabile per ricevere sia la donazione testamentaria di 77 scudi annuali della Principessa di Pietraperzia, che i 200 scudi all’anno del lascito del prete genovese Filippo Cannesi, zio di due monache teatine, Orsola e Rosalia Santini.

Cannesi era stato il benefattore che aveva comprato a sue spese le case nelle vicinanze del monastero e che aveva donato una cospicua somma per la fabbrica del complesso religioso e l’acquisto di suppellettili. In memoria di padre Cannesi nell’angolo occidentale del monastero venne posta un'epigrafe.

Il 9 marzo del 1679 fu posta dall’arcivescovo D. Giovanni Palafox la prima pietra per l’edificazione della nuova chiesa di San Giuliano. Il tempio fu progettato con pianta ellittica nel 1756, dal crocifero Paolo Amato, e fu completato solo nella prima metà degli anni sessanta (nello stesso periodo veniva realizzata anche la loggia del chiesa del Santissimo Salvatore, opera del medesimo architetto).

L'edificio presentava la facciata con pietre d'intaglio e statue, cupola ellittica - con lanternino sopra - che, per altezza e diametro, primeggiava su quelle di tutte le altre chiese di Palermo.

Scriveva Gaspare Palermo: "Nella parte esteriore di questa cupola gira una comoda scala, per la quale si ascende al lanternino, dove si trova una ringhiera di ferro che serve di belvedere alle religiose, da dove godono la vista di tutta la città, campagna e mare".

All’interno la chiesa aveva un coro sostenuto da 6 colonne; sotto vi erano il mausoleo di Michele Schiavo, vescovo di Mazara, morto a Palermo e del fratello Domenico Schiavo, canonico della cattedrale, insigne letterato, opera di Ignazio Marabitti.

Dopo la demolizione della chiesa di San Giuliano, i due mausolei furono trasferiti nel transetto sinistro della chiesa di San Domenico.

Nel suo volume “Palermo restaurato”, Vincenzo di Giovanni ricorda che “tempo prima dell’uso della neve”, nel luogo in cui venne eretto il monastero esisteva un pozzo, detto di San Giuliano, da cui si attingevano nei mesi estivi acque fresche, per dare ristoro all’arsura dell’aristocrazia palermitana.

Le monache di San Giuliano, realizzavano diverse tipologie di fiori artificiali (così perfetti da sembrar veri) con cui adornare cappellini e abiti, per soddisfare la vanità delle dame: i mazzetti di fiori delle teatine erano molto famosi, sia in Sicilia che fuori dal regno. Le suore erano rinomate anche per la bontà del loro pane e della pasta fresca, come ricorda l’abate Meli con versi in vernacolo, nel poemetto “Li cosi duci di li batii”.

A seguito delle leggi eversive del 1866 il monastero di San Giuliano venne soppresso e le monache superstiti vennero trasferite nel monastero della Pietà. Nel 1875 la chiesa e il monastero vennero espropriati e demoliti, insieme ad altri edifici, per la costruzione del teatro Massimo, Vittorio Emanuele II.

La prima pietra del Teatro Massimo fu posta il 12 Gennaio 1875 ma i lavori furono sospesi nel 1882. Vennero ripresi nel 1890 ma nel 1891 l’architetto Giovan Battista Basile morì.

Il figlio Ernesto accettò di portare a compimento l’opera del padre. Durante i lavori di smantellamento della struttura conventuale, secondo un racconto che cominciava a circolare, era stata profanata la tomba di una monaca teatina. L’atto sacrilego veniva ritenuto la causa dei tanti incidenti e dei numerosi problemi che avevano rallentato la costruzione del teatro.

In realtà, scriveva Rosario La Duca, sulle pagine del Giornale di Sicilia, erano stati i detrattori del Basile a inventare, durante la sospensione dei lavori, nel 1882, la storiella dello spirito irrequieto della monaca che infestava il cantiere e che cercava di impedire l’ultimazione delle fabbriche.

Ultimato il teatro nel 1897, ben 33 anni dopo la posa della prima pietra, si leggeva in un articolo de La Sicilia Cattolica: “S’inaugurerà questo teatro maledetto, che sorge sulle rovine delle chiese delle Stimmate, di San Giuliano, di Santa Marta, della monumentale chiesa di Sant’Agata di Scorruggi; e sui ruderi di due illustri e famosi monasteri con vere opere d’arte; s’inaugurerà con lo sperpero di circa sette milioni che sono sangue del popolo; s’inaugurerà quando tra noi i poveri ammalati non trovano posto all’ospedale.”

I detrattori continuavano intanto ad affermare che il fantasma della monaca di San Giuliano si agitava ancora senza pace sul palcoscenico e tra i palchi del teatro.

“Fortunatamente tutti questi uccellacci di malaugurio ed il lor improbabile fantasma a poco a poco si dileguarono e la vita artistica del teatro si sviluppò in modo normale”, concludeva Rosario La Duca, grande ammiratore del Teatro Massimo, alla fine del suo articolo.
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