LE STORIE DI IERI

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Venga a prendere un caffè da noi, Ucciardone cella 26

  • 3 marzo 2006

“Venga a prendere un caffè da noi, Ucciardone cella ventisei”. Con umorismo nero e versi intriganti, Pino Caruso metteva così in musica certi delitti apparentemente misteriosi e niente affatto inesplicabili che si ripetevano tra le mura della tetra fortezza borbonica. Ma con quelle rime il noto showman – che certo per motivi artistici ora passa la maggior parte dell’anno lontano da questa città – alludeva in particolare all’eliminazione di Gaspare Pisciotta, luogotenente malfido di Salvatore Giuliano. Uno che sapeva tutto sul Separatismo del suo capo sanguinosamente attivo in provincia di Palermo, tra i monti di Sagana e Bellolampo, e promosso infine colonnello dell’esercito dei volontari per l’indipendenza della Sicilia. Ma che era pure tra i pochissimi ad aver letto la lettera con la quale entità nemmeno troppo oscure avevano commissionato a Giuliano la strage di Portella delle Ginestre. E che perciò doveva per forza tenere definitivamente la bocca chiusa su quanto egli stesso aveva minacciato di rivelare, poco tempo prima, al processo che contro l’intera banda Giuliano lo Stato celebrava a Viterbo, per “legitima suspicio”.

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Uno che il 9 aprile del ’54 iniziò e chiuse la sua ultima mattina nel carcere palermitano bevendo in un solo sorso il caffè comunque troppo amaro - al bar una tazzina costava cinquanta lire - che gli era stato preparato dal padre. Il compagno di prigionia i cui capelli incanutirono del tutto quando si rese conto che uno sconosciuto, non si seppe mai come, aveva generosamente aggiunto stricnina allo zucchero dell’ammaccato barattolo in dotazione alla cella che divideva con il suo “Aspano” o “Asparinu”. Accusato dalla madre di Giuliano di aver dato la mano giusta a chi aveva inscenato la farsa del cugino, Re di Montelepre, “catturato” da morto una torrida notte del 1950. Un duro che, guardandoli dritto in faccia, ai giudici di Viterbo s’era rivolto con l’espressione oscuramente famosa e disperatamente blasfema che forse l’aveva condannato a morte. “Che vi credete” - aveva detto allora Pisciotta - “polizia, mafia e banditi siamo tutti una cosa. Come la santissima trinità”. Un avvelenamento, quello del luogotenente di Giuliano, eseguito secondo un collaudato copione vecchio di secoli e perciò niente affatto nuovo nel 1986 quando in un diverso carcere il cianuro tolse di mezzo un altro siciliano, “parce sepulto”, già osannato quale salvatore della lira. Ma che dietro le sbarre restava infine una mina vagante per quanti l’avevano sostenuto con reciproco vantaggio.

Però è col ricordo di un copione sperimentato assai prima che non può non concludersi questa storia relativa alla città che pare resti sempre uguale sotto ogni sua nuova maschera. Ci riferiamo alla vicenda del famoso bandito Riccio di Saponara, del quale scrissero Paruta e Palmerino, oltre che Vincenzo Di Giovanni e, ovviamente, William Galt. Un mancato pentito ante lettera del quale, nel 1578, il primo viceré Colonna non riuscì però ad utilizzare le eventuali chiamate di correo. Essenziali per fare fuori molti dei nobili locali che volevano a loro volta liberarsi dell’astuto rappresentante d’un lontano sovrano. Mentre, per accennare compiutamente a tale torbida faccenda, le fonti meno inquinate restano i due diaristi citati, dall’italiano primitivo ma efficacemente allusivo. “A ventisette marzo” - scrissero Paruta e Palmerino – “vennero due galere di Sicilia, e lì venne ligato con molti strumenti di cautela il Rizzo di Sapunara che aveva per 25 anni tenuto la Sicilia e il regno di Napoli in pugno, con fare gran danno. Il signor Marco Colonna Viceré, con grandissima industria fece di modo che, essendo in Fiorenza, il Gran Duca ce lo mandò ligato come si è detto. E s’intendìa che molti signori lo proteggìano; et, si andava alla corda (leggasi: sotto tortura, ndr.), averìa chiamato a molti. E quando sbarcò fu attossicato con un pomo, e di lì a poco morì. Il viceré mise carcerati il barrigello e li compagni”. Quanto alla eternamente problematica identificazione di mandanti ed esecutori è impagabile il commento dei due preziosi storici locali: “E quello che li detti lo pomo non si sappi; il che fu una gran cosa - essendoci tanti genti - a non sapirsi”. Insomma, come per Pisciotta e Sindona, volarono per aria solo gli stracci. Anche se a quel tempo pure gli stracci valevano qualcosa. Visto che durante la peste del 1577 non furono pochi i concittadini cui il boia “livò le teste” per aver fatto commercio di abiti e panni infetti.

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