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Da Palermo gira il mondo (fino in Ucraina): Stefania sta dove si "convive" con la guerra

Un racconto che arriva direttamente da chi tocca con mano, lontano dal rimbombo dei media, quale sia il reale vissuto della gente in questo momento di emergenza

Fabio Vento
Web developer e giornalista
  • 1 giugno 2023

Stefania Martello

Curiosità verso l’altro come depositario di «universi culturali» sconosciuti, ma anche coraggiosa determinazione e desiderio di rendere concretamente utili le proprie conoscenze: è questa la storia di Stefania Martello, giovane palermitana attualmente impegnata come coordinatrice di campo per la sede locale di una ONG francese di stanza in Ucraina.

«Da poco più di un mese – racconta - mi trovo a Leopoli, città che è stata coinvolta in misura inferiore nell’attacco russo. Come tale accoglie molte persone provenienti dalle zone calde del Paese, ospitate il più delle volte in centri di accoglienza.

L’ONG per cui lavoro si compone di figure specialistiche che forniscono sostegno alla popolazione locale: dal supporto logistico ed economico all’assistenza medica e psicologica, passando per interventi come la ristrutturazione di edifici danneggiati. Come field coordinator della sede locale, ruolo che ricoprirò fino alla fine dell’anno, supervisiono il lavoro dei vari dipartimenti perché ciascuno di essi raggiunga i propri obiettivi».
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Un approdo che giunge al culmine di un articolato percorso di studi: «Mi sono laureata a Palermo in Sviluppo Economico e Cooperazione Internazionale. Inizialmente ero più interessata al settore dello sviluppo, che si pone come obiettivo quello di aiutare le popolazioni a uscire dalla povertà, attraverso progetti di lungo periodo e strumenti come il microcredito e il supporto all’imprenditorialità. In un secondo tempo, però, mi sono spostata verso il settore umanitario, che agisce sul breve periodo per affrontare situazioni di emergenza».

Alla passione per la statistica – ha conseguito poi un master in Scienze Statistiche, che le ha fornito strumenti, rivelatisi fondamentali, per la raccolta e l’analisi dei dati demografici – si è accompagnato il desiderio, culturale e umano, di «lasciarsi arricchire dall’altro» come appartenente a realtà culturali lontane e di volgere le proprie competenze in azioni concrete e socialmente utili.

«Prima di entrare nel mondo del lavoro – prosegue – feci alcune esperienze di volontariato nella mia città, come ad esmpio al centro Astalli, che fornisce tuttora servizi di accoglienza ai migranti. Fu nel 2020 che intrpresi il mio primo vero lavoro nel settore umanitario, precisamente a Bangui, in Repubblica Centrafricana: collaborai con un’ONG svizzera che si occupava di analisi dei dati nei contesti di crisi per indirizzare altre associazioni riguardo gli interventi da effettuare.

Successivamente, con una ONG francese, mi spostai per alcuni mesi in una città più piccola, dove per la prima volta assunsi il ruolo di project manager e collaborai a progetti di aiuto verso le popolazioni locali. Tra questi la costruzione di pozzi per l’accesso all’acqua e l’organizzazione di corsi di alfabetizzazione.

Fu un momento importante, - ricorda - perché per la prima volta percepii in modo diretto i risultati tangibili del mio lavoro. Poi, con la stessa ONG, sono stata in Moldavia, dove mi sono occupata ancora di gestione di progetti; infine sono approdata in Ucraina».

Ucraina, già. Una circostanza che le ha dato occasione di toccare con mano, lontano dal rimbombo dei media mainstream, quale sia il reale vissuto della gente in questo momento di grave crisi: «C’è ormai una sorta di abitudine, di addomesticata convivenza con la guerra. Questa dura da un anno e le persone hanno desiderio di vivere la propria quotidianità, il proprio lavoro, i propri svaghi nonostante l’eccezionalità della situazione.

Poi, però, quando vedi i militari che marciano per strada, questa quotidianità sembra infrangersi: ed io non posso non pensare al loro futuro, a cosa significherà per loro lasciare le proprie famiglie, il proprio lavoro, la propria vita».

Ma, più in generale, sono tanti i preconcetti che, viaggiando all’estero e in realtà molto distanti dalla nostra, sono caduti. «Da parte del mondo occidentale c’è sicuramente la tendenza a rappresentare il "povero" come figura passiva, inerte, che si limita a ricevere il nostro aiuto.

Stando sul posto, invece, ci si rende conto che la maggior parte dei "poveri" sono persone con una propria dignità, un proprio quotidiano, che fanno anche con fatica il proprio lavoro per sopravvivere. Ogni Paese, di fatto, ospita una grande e inaspettata varietà culturale. Così è stato per esempio in Repubblica Centraficana: decine di etnie con lingue, culture e tradizioni diverse.

Questo - aggiunge - mi fa pensare che il concetto di sviluppo, così come imposto dal modello occidentale, non per forza sia sempre la via migliore. Ci sono situazioni concrete - come ad esempio il bisogno di infrastrutture - che richiedono interventi oggettivi, ma io penso che al contempo sarebbe stato bello se certe popolazioni avessero potuto seguire un percorso autonomo verso il progresso».

La somma di queste esperienze, per Stefania, è decisamente positiva: «Facendo questo lavoro si è lontani dal proprio nucleo familiare e si è costretti a ricreare di continuo la propria rete di relazioni; nonostante ciò continua ad appassionarmi e mi piacerebbe continuare a lavorare in questo settore ancora per qualche anno».

Un consiglio per chi, da una realtà come la Sicilia, volesse approcciarsi a questo mondo? «Preparare con cura il proprio curriculum e fare tanti tentativi, senza arrendersi ai primi fallimenti: non è facile accedere, ma non è neanche impossibile».
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