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Fidanzata, morosa, partner ma in Sicilia è "la zita": storia di una fanciulla che era una Santa

Rintracciare la possibile origine di questa parola che ha traumaticamente influenzato l’evoluzione antropologica del masculo siciliano è la mission di questa storia

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 25 aprile 2022

Era un copione destinato a ripetersi come un sogno ricorrente… Io seduto sulla sedia con la congiuntivite da sforzo a bestia e Super Mario Bros che correva frenetico da livello a livello come uno che deve andare a pagare la bolletta dell’Enel, l’ultimo giorno, prima del distacco di potenza.

Ore a saltare sui funghetti cattivi per ucciderli, prendere funghetti buoni per diventare grandi, cercare funghi della vita nascosti dove ha perso le scarpe il Signore, rompere mattoni con la testa e raccogliere monete. Ogni dieci livelli un castello dove alla fine trovavi solo un altro funghetto che ti diceva: “Sorry Mario, the princess is in another castle”. Bottana industriale! In fondo era colpa sua: se non si faceva rapire tutto questo non sarebbe mai accaduto.

Finalmente, dopo innumerevoli tentativi, morsi nella mano per scaricare la tensione, grida isteriche e crisi di pianto, arrivavi al castello finale: quello della principessa. Lava dappertutto, mattoni indistruttibili, bastoni di fuoco rotanti, burroni incandescenti, palle di fuoco vaganti e per completare musica ansiolitica.
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E proprio in quel momento, puntuale come la Tari, arrivava zia Agatina con la scopa (perché se non faceva pulizie dalla mattina alla sera moriva), toccava la presa della corrente e ciao ciao, con le mani e con tutte cose. «Ma che ci piangi scemo, alla tua età dovresti avere già tre zite!».

Zita, fidanzata, morosa al nord, partner per gli avanguardisti, girl-friend per quelli che ci sono rimasti alla fine degli anni ‘80 con Sabrina Salerno che cantava “Boys Boys Boys”, compagna per chi è un po’ indeciso, moglie per chi si è fatto fottere, ex per chi ha fatto la stessa fine del signor Tranquillo (che lo sanno tutti se l’è presa in quel posto).

Data quindi la portata del danno, non potevo certo esimermi dal rintracciare la possibile origine di questa parola che ha traumaticamente influenzato l’evoluzione antropologica del masculo siciliano. Per prima cosa accontentiamo i grecisti dicendo che la parola zita o cita, viene dalla parola greca ζευκτός, che ha assunto vari significati nel tempo ma sempre in una qualche maniera legati a quello di fanciulla.

Tuttavia, c’è un’altra Zita che per cinque secoli ha fatto parte della vita dei palermitani e pochi se la ricordano. Diodoro Siculo nel I secolo avanti Cristo ci lascia scritto che il significato di Pan-Hormos fosse “tutto porto”. E tutto porto non lo dice tanto così, perché il mare ai sui tempi, effettivamente, entrava dentro la città.

“Agghiorna e scura e su ventiquattr’uri”, cioè passa il tempo e ci ritroviamo a cavallo tra il medioevo e il rinascimento. Le navi mercantili attraccavano ogni mattina al porto di Palermo, e, intanto che una ne partiva una e ne tornava, i venditori si prendevano a morsi e carcagnate per cercare di acchiapparsi le merci più rare e belle.

Veneziani, amalfitani, pisani, genovesi, lucchesi, di soldi se n’erano fatti assai a Palermo, e tanti altri continuavano a farsene, sotto gli occhi dei nobili che di lavorare manco ammazzati ma di rodersi per le ricchezze altrui erano mastri. E cosi, visto che “chi compra sale e chi vende scende”, questi selvaggi che venivano da chissà dove, prima si erano comprati tutta la Loggia (o Castellammare, ovvero il rione che si sviluppava attorno al vecchio porto), edificando chiese dedicate ai loro Santi, poi costruirono i palazzi più belli di tutta la città ed infine anche i titoli nobiliari s’arrivarono a comprare, tant’erano le ricchezze.

E giacché ai nobili che erano rimasti poveri e pazzi non poteva calare la cosa, cominciarono a dare in spose le primogenite a questi nuovi ricchi che, fottendosi insieme alle figlie pure i loro titoli nobiliari, in cambio, gli riempivano le panze. Poco più sopra di dove attraccavano queste navi, presso la porta di San Giorgio (purtroppo abbattuta nel 1853), vi era il Convento di Santa Zita: anche questo si erano comprati i lucchesi, cedendo poi la struttura ad una congregazione di padri domenicani che si erano distaccati dal principale convento di San Domenico per evitare di prendersi pure loro a calcagnate.

Santa Zita, il convento e pure la chiesa, rimarrà a Palermo fino a quando nel 1939 scoppia la seconda più grande partita a Risiko della storia, ne seguono i bombardamenti e poveretta resta ferita. Diventa così, tutta malconcia, prima deposito di derrate alimentari, poi aula di tribunale. Alla fine, visto che nessuno più si ricorda di Zita, viene intitolata a San Mamiliano e la parte del convento affidata successivamente alla Guardia di Finanza.

E non era un caso che la chiesa di Santa Zita l’avevano fondata i lucchesi, perché guarda caso Zita era una fanciulla nata nel a Lucca nel 1218. Era povera purtroppo, e a soli dodici anni, forse perché con la fame si cresce più in fretta, iniziò a servire in casa della potente famiglia Fatinelli. In men che non si dica la piccola Zita si fece apprezzare dai Fatinelli per la sua dedizione al lavoro e dai poveri per la sua generosità, perché tutto quello che avanzava dalla ricca dimora lo destinava a chi un pezzo di pane non lo aveva.
E dato che l’invidia c’è sempre stata, e che quest’occhio non può vedere quest’altro, accadde che un’altra domestica si mise sul naso la povera Zita e l’accusò di rubare in casa quello che dava ai poveri.

Il capofamiglia che doveva fare? A primo giorno che vide Zita con il grembiule gonfio mentre usciva di casa le chiese di mostrargli il contenuto. Era vero, la ragazza aveva preso un’altra volta gli avanzi e li stava portando ai poveri. «Non ho niente!», disse spaventata, «Tengo solo fiori…». E magicamente, a tipo mago Silvan, appena la fanciulla aprì il grembiule, gli avanzi si trasformarono veramente in fiori. Ingenuamente mi piace immaginare che questo è anche il motivo per cui alle zite ancora oggi si regalano i fiori.

Zita venne fatta santa il 5 settembre 1696 per poi essere dimenticata dai palermitani.
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