Il caldo e gli "alieni" minacciano le acciughe: cosa succede nei mari della Sicilia
A peggiorare la situazione anche diverse specie che trovano il Mediterraneo sempre meno ospitale per le specie autoctone si insediano con successo

Il Mediterraneo è stato per diversi millenni uno dei bacini più pescosi del mondo, essendo capace di sfamare i diversi popoli che abitavano le coste di tre distinti continenti - l’Asia, l’Europa e l’Africa – senza che una crisi ittica potesse mettere in ombra la sua fama.
Tuttavia, a seguito della diffusione della pesca intensiva e del surriscaldamento globale, i suoi ecosistemi hanno smesso di risultare fertili come un tempo, con diverse specie le cui popolazioni hanno cominciato a contrarsi a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Fra le vittime principali di questo disastro ecologico ci sono le acciughe, oggi sempre più difficili da pescare.
A lanciare questo allarme non sono solo i pescatori e gli ambientalisti, costantemente impegnati per sostenere gli ecosistemi del Mediterraneo, ma anche Confcooperative – Fedagripesca, che in un recente report ha indicato alcune situazioni critiche che si sono osservate in Sicilia e in Sardegna, dove provenivano la maggioranza delle catture.
Al centro del problema che affligge la pesca delle acciughe c’è un meccanismo fondamentale per la vita marina, ovvero l’upwelling, la risalita verso la superficie di acque profonde, fredde e ricche di nutrienti.
Questa risalita permette ai pesci più piccoli di trovare incredibili quantità di cibo, utili per svilupparsi e compiere la riproduzione, ma per via dei problemi climatici già accennati entro il 2050 il Mediterraneo potrebbe registrare una riduzione del 20% di questo fenomeno, che diventerà meno frequente.
Già al giorno d’oggi tra il Canale di Sicilia e le coste della Sardegna alcuni esperti hanno segnalato una riduzione drastica dell’upwelling (risalita delle acque profonde), che ha contribuito pesantemente a ridurre il numero di acciughe e far entrare in crisi il mercato della pesca.
Le acciughe, difatti, avendo meno disponibilità di cibo, hanno difatti ridotto il proprio numero e le loro dimensioni, provocando una vera e propria crisi alimentare all’intero ecosistema.
Esse non sono inoltre gli unici pesci a subire le conseguenze del surriscaldamento climatico. L’intera catena alimentare marina risente della diminuzione nella circolazione nutrienti, fino ad arrivare ai grandi predatori e, ovviamente, all’uomo. In alcune zone dell’Adriatico, Fedagripesca ha stimato che il 40-60% degli stock ittici sia sostenuto proprio da queste correnti.
Dunque se esse dovessero svanire di seguito al progressivo surriscaldamento del mare, la carestia che ne seguirebbe condannerebbe moltissime altre specie alla sofferenza, per non dire all’estinzione.
A peggiorare la situazione è anche la proliferazione di specie aliene, che, trovando il Mediterraneo sempre meno ospitale per le specie autoctone, si insediano con successo, allontanando le acciughe dalle loro originali zone di riproduzione.
Questi nuovi arrivati alterano inoltre l’equilibrio degli ecosistemi locali, competono con le specie native per il cibo e in alcuni casi ne causano il declino.
Un esempio evidente è il crollo della densità di ricci di mare, di cui abbiamo parlato qualche giorno fa. Alcune ricerche affermano che in alcune zone del Mediterraneo se ne contano meno di 0,2 per metro quadrato.
Per affrontare questa crisi, gli esperti auspicano che le amministrazioni nazionali e internazionali spingano gli abitanti delle comunità costiere a pescare sempre meno pesce, così da garantire il ritorno delle risorse ittiche, grazie alle nuove nascite, ma come è possibile immaginare questa strategia è difficile che si realizzi senza l’aiuto della popolazione.
Una scelta che potrebbe aiutare le acciughe a rirendersi dalla loro crisi potrebbe però provenire dalle nostre tavole imbandite. Rinunciare a comprare e a consumare la neonata o il novellame, che soprattutto in estate viene venduta illegalmente da alcuni esercenti, potrebbe contribuire ad aumentare il numero di acciughe esistenti nell’intero Mediterraneo.
Tuttavia, a seguito della diffusione della pesca intensiva e del surriscaldamento globale, i suoi ecosistemi hanno smesso di risultare fertili come un tempo, con diverse specie le cui popolazioni hanno cominciato a contrarsi a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Fra le vittime principali di questo disastro ecologico ci sono le acciughe, oggi sempre più difficili da pescare.
A lanciare questo allarme non sono solo i pescatori e gli ambientalisti, costantemente impegnati per sostenere gli ecosistemi del Mediterraneo, ma anche Confcooperative – Fedagripesca, che in un recente report ha indicato alcune situazioni critiche che si sono osservate in Sicilia e in Sardegna, dove provenivano la maggioranza delle catture.
Al centro del problema che affligge la pesca delle acciughe c’è un meccanismo fondamentale per la vita marina, ovvero l’upwelling, la risalita verso la superficie di acque profonde, fredde e ricche di nutrienti.
Questa risalita permette ai pesci più piccoli di trovare incredibili quantità di cibo, utili per svilupparsi e compiere la riproduzione, ma per via dei problemi climatici già accennati entro il 2050 il Mediterraneo potrebbe registrare una riduzione del 20% di questo fenomeno, che diventerà meno frequente.
Già al giorno d’oggi tra il Canale di Sicilia e le coste della Sardegna alcuni esperti hanno segnalato una riduzione drastica dell’upwelling (risalita delle acque profonde), che ha contribuito pesantemente a ridurre il numero di acciughe e far entrare in crisi il mercato della pesca.
Le acciughe, difatti, avendo meno disponibilità di cibo, hanno difatti ridotto il proprio numero e le loro dimensioni, provocando una vera e propria crisi alimentare all’intero ecosistema.
Esse non sono inoltre gli unici pesci a subire le conseguenze del surriscaldamento climatico. L’intera catena alimentare marina risente della diminuzione nella circolazione nutrienti, fino ad arrivare ai grandi predatori e, ovviamente, all’uomo. In alcune zone dell’Adriatico, Fedagripesca ha stimato che il 40-60% degli stock ittici sia sostenuto proprio da queste correnti.
Dunque se esse dovessero svanire di seguito al progressivo surriscaldamento del mare, la carestia che ne seguirebbe condannerebbe moltissime altre specie alla sofferenza, per non dire all’estinzione.
A peggiorare la situazione è anche la proliferazione di specie aliene, che, trovando il Mediterraneo sempre meno ospitale per le specie autoctone, si insediano con successo, allontanando le acciughe dalle loro originali zone di riproduzione.
Questi nuovi arrivati alterano inoltre l’equilibrio degli ecosistemi locali, competono con le specie native per il cibo e in alcuni casi ne causano il declino.
Un esempio evidente è il crollo della densità di ricci di mare, di cui abbiamo parlato qualche giorno fa. Alcune ricerche affermano che in alcune zone del Mediterraneo se ne contano meno di 0,2 per metro quadrato.
Per affrontare questa crisi, gli esperti auspicano che le amministrazioni nazionali e internazionali spingano gli abitanti delle comunità costiere a pescare sempre meno pesce, così da garantire il ritorno delle risorse ittiche, grazie alle nuove nascite, ma come è possibile immaginare questa strategia è difficile che si realizzi senza l’aiuto della popolazione.
Una scelta che potrebbe aiutare le acciughe a rirendersi dalla loro crisi potrebbe però provenire dalle nostre tavole imbandite. Rinunciare a comprare e a consumare la neonata o il novellame, che soprattutto in estate viene venduta illegalmente da alcuni esercenti, potrebbe contribuire ad aumentare il numero di acciughe esistenti nell’intero Mediterraneo.
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