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Il castello dei fantasmi sull'Etna: una storia di anime dannate e di peccati da espiare

Arturo Graf, poeta vissuto tra il XIX e XX secolo, nell’opera intitolata "Il diavolo", sosteneva che nel vecchio credo degli antichi ci fosse  una dimensione terrena degli inferi

Livio Grasso
Archeologo
  • 6 marzo 2022

Arturo Graf, poeta vissuto tra il XIX e XX secolo, spiegava che nell’immaginario medievale l’inferno era scandito in diversi livelli. Proprio nell’opera intitolata “Il diavolo”, infatti, lo scrittore sosteneva che nel vecchio credo degli antichi ci fosse una dimensione terrena degli inferi. In poche parole, era opinione comune ritenere che a volte i dannati venissero trasportati fuori dall'inferno tradizionale e abbandonati in alcuni luoghi tenebrosi del mondo.

Perciò, di solito erano condotti in posti adatti allo sconto della pena che gli era stata inflitta. Un esempio di tal genere è sicuramente incarnato dalla leggenda di alcuni spettri che nel cuore della notte si aggiravano sull’Etna. Da Graf, difatti, siamo a conoscenza di una testimonianza rilasciata da un certo Stefano di Borbone.

Quest’ultimo raccontava che vicino al cratere centrale del Vulcano si vedevano dei fantasmi affaccendati a costruire un grandissimo castello. Dall’aspetto orrido e spaventoso, queste ombre oscure si accalcavano per lavorare duramente e senza un attimo di respiro. Lo stesso Federico riportava che si udivano persino i loro borbottii; per di più, col capo chino brontolavano e pronunciavano delle parole incomprensibili.
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Sembrava, inoltre, che il terreno assimilasse ogni lamento reclamandone avidamente i suoni e le imprecazioni. Ben presto, la notizia venne diffusa dappertutto e di lì a poco gli abitanti dei paesi etnei si convinsero che la bocca della “Montagna” fosse un covo di esseri mostruosi e demoniaci. Si dice, inoltre, che un gruppo di uomini si recò sul cratere per vedere e appurare coi propri occhi se ciò di cui si parlava in giro fosse realtà o pura fantasia; una volta giunti lassù, del tutto meravigliati, scorsero un poderoso castello in pietra nera.

In più, notarono un ammasso di fantasmi che si adoperava affannosamente per portarlo a compimento nel più breve tempo possibile. Le cronache di quell’epoca ne rilasciano persino una descrizione: scuro come le tenebre sfoggiava dei “blocchi litici" ruvidi, spigolosi e compatti. Si raccontava pure che i volti dei fantasmi fossero ricoperti dalla cenere sgorgante dalle rocce. Un’altra tradizione, però, presenta una versione differente; essa narra che, nel momento in cui stava per essere posata l’ultima pietra, il castello crollò rovinosamente.

Dunque, gli spettri, in mezzo a quel turbinio di polveri e frammenti rocciosi, rimasero travolti da travi, torrioni e merlature. Essendosi distrutto interamente, quindi, furono costretti a ricostruirlo dalle fondamenta per una seconda volta. Tuttavia, stranamente, da quel momento in poi la “rocca lavica” non riuscì più a reggere sfaldandosi di continuo non appena si apponeva l’ultimo concio di pietra. A detta di alcuni, era una vera e propria maledizione che condannava ciascuno di loro ad una spossante e perenne fatica per espiare i peccati terreni.

Un episodio simile venne reso noto da Alberico delle Tre Fontane, cronista francese che visse a cavallo tra l’ XII e il XIII secolo. In uno dei suoi scritti diceva che “ le anime dei dannati erano quivi portate quotidianamente a bruciar le fiamme e a pagare per i propri misfatti”. Storielle di questo tipo si attribuiscono pure al celebre Gregorio Magno, il quale asseriva che anche l’anima di Teodorico avesse trovato dimora negli abissi del Vulcano.

A tal proposito, si parla di un solitario residente a Lipari che colse Papa Giovanni nell’attimo di scagliare il re degli Ostrogoti dentro l’antro rovente del calderone magmatico. Probabilmente la vicenda trae origine dalla crudeltà di Teodorico che, secondo le fonti storiche, si macchiò della terribile colpa di aver rinchiuso il pontefice per il resto dei suoi giorni.
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