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Incappucciati con la croce dipinta sul petto: in Sicilia c'era la "Compagnia dei Bianchi"

La storia di un ordine antico che a Termini Imerese l’Istituzione ottenne diversi privilegi. Tra questi c'era il diritto sulla vendita delle carni macellate

Roberto Tedesco
Architetto, giornalista e altro
  • 19 dicembre 2022

La chiesa del Monte a Termini Imerese

Così come a Palermo anche a Termini Imerese esisteva la Compagnia dei Bianchi, venne istituita su iniziativa del dottore in teologia il sacerdote domenicano Tommaso Falzello che ne dettò i Capitoli, approvati nel 1549 dal Vicerè Giovanni De Verga e dal Vicario Generale monsignor Federico Valdaura.

L’Istituzione venne chiamata in principio del “Monte di Pietà” o “Compagnia della Carità”, denominazione che mantenne tale nome fino al 1560.

Nel documento di costituzione si legge che ogni confrate della Compagnia doveva essere iscritto in un “libro facto apposta altrimenti si non è iscritto non si intende di questa Compagnia”. Questa "associazione umanitaria" aveva lo scopo di prestare assistenza ai poveri, di provvedere all’educazione e all’istruzione nonché di agevolare i giovani all’avviamento alle professioni.

Generalmente i componenti appartenevano alla classe degli artigiani e della borghesia anche se in alcuni documenti si evince che era frequentata da numerosi nobili.
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L’organizzazione termitana ebbe un ruolo importante sia per il cospicuo numero di confrati che vi aderirono, sia per le numerosissime attività che quotidianamente svolgeva nell’ambito dell’assistenza degli indigenti. Durante le processioni gli adepti della “Compagnia dei Bianchi”, indossavano delle lunghe vesti con buffa di colore bianco e si flagellavano "con la disciplina del silenzio".

L’erudito termitano Vincenzo Solito nella sua opera dal titolo “Termini Imerese Città della Sicilia posta in teatro” del 1669 fornisce ulteriori notizie in merito all’organizzazione: “(…) nel 1619 fu dato l’Oratorio chiamo dei Bianchi dove vi era una Compagnia detta dei Bianchi, perché vanno nelle processioni vestiti tutti di bianco con un Santo Crocifisso al petto.

È la Compagnia di Nobili, sotto il patrocinio del Glorioso Martire Santo Sebastiano, a cui era anticamente consacrata la Chiesa e della Santa Croce di Cristo, di cui ne conservava una insigne reliquia (…)”.

Nell’opera letteraria “Civitas Spemdidissima Termini Imerese. Leggenda e Storia” di Ignazio Candioto, dato alle stampe nel 1940, ricostruisce cronologicamente le sedi in cui l’Istituzione si riuniva: “(…) i confrati ebbero come prima sede, e solo per pochissimo tempo, la Chiesa di San Crispino, oggi distrutta, poscia la Chiesetta di San Sebastiano proprietà della Compagnia medesima abbattuta poi nel 1613 e solo in modo provvisorio, la Chiesa di San Vito ora distrutta, ed in ultimo il tempio di Santa Croce, comunemente in tempi posteriori e fino ai giorni nostri chiamata Chiesa del Monte, una delle nostre più belle Chiese e quella a ragione è ritenuta il nostro Pantheon (…)”.

La Compagnia sin dalla sua costituzione usufruì di numerose donazioni destinate a svariate forme di beneficienza. In breve tempo allargò la sua sfera di attività e ben presto arrivò a possedere rendite anche a Palermo e nei territori di Girgenti e di Trapani.

Tra i profitti più importanti che la Compagnia beneficiava c’era quello sul macello e sulla rendita delle carni macellate, diritti che aveva ereditato da un privilegio concesso dal Viceré Giovanni de Vega datato il 14 gennaio del 1552. Grazie a tale beneficio l’organizzazione umanitaria aveva il monopolio della macellazione e della vendita proibendo, di fatto, che dai paesi limitrofi potessero entrare in città carni macellate.

Un giro d’affari imponente da come testimoniato da un documento, conservato all’archivio contabile della Compagnia, dove si deduce che nel 1824, grazie al macello e alle rivendite si ebbe un introito di onze 198, tarì 20 e grana 12. Una cifra considerevole che testimoniava quanto fruttava la macellazione delle carni in città.

L’antico macello, sulla scorta di antichi documenti, doveva trovarsi nel quartiere di San Giovanni e più precisamente lungo il muro di cinta muraria compresa tra la Porta di Santa Caterina – detta anche Porta della Fossola - e il Real Forte del Castello.

In città l’opera della Compagnia si esplicitava principalmente nella distribuzione di denaro ai poveri, nell’assegnazione di sussidi agli ammalati e poveri, nell’assistenza morale e materiale ai carcerati, con speciale riguardo ai detenuti per debiti per effettiva miseria, e infine nel provvedere alle sepolture dei poveri e dei giustiziati.

Inoltre tra gli impegni assunti dalla Compagnia, così come sancito nelle disposizioni testamentari del benefattore Giuseppe Salamone, c’era quello di contribuire al mantenimento dell’Ospedale di San Giovanni di Dio dei Padri Fatebenefratelli nella misura di onza cinquanta annuali.

Dal 1873 tale struttura è adibita a Museo Civico. Ma le attività di beneficienza, come scrive Ignazio Candito nel suo libro intitolato “La Compagnia dei Bianchi di Termini Imerese” del 1929, erano anche destinate “(…) nel soccorrere finanziariamente le vittime della pirateria, i captivi in Turchia, come allora di diceva, col contribuire al loro riscatto (…)”. Il bene dell’anima dei Confrati era sicuramente una peculiarità che non si poteva tralasciare.

Infatti almeno una volta al mese i componenti si riunivano a recitare delle preghiere, in particolare i salmi penitenziali. Due volte l’anno facevano celebrare solenni funerali per le anime dei fratelli e delle sorelle defunte e prendevano parte alle processioni quali quelle del Corpus Domini e dell’Immacolata.

Il ruolo determinante che ebbe la Compagnia dei Bianchi è testimoniato dalla bellezza della loro sede e luogo d’incontro. Oggi la Chiesa di Santa Croce al Monte è considerata, proprio per la sua straordinaria bellezza, il Pantheon della città. Di particolare interesse architettonico è la facciata arricchita da un ingresso monumentale composto da lesene e sormontato da un’ampia apertura anch’essa modanata.

All’interno dell’edificio, oltre a numerose lapidi e monumenti marmorei, che ricordano illustri terminati, si trovano due bellissimi sarcofaghi in marmo di scuola gaginiana. Uno racchiude il copro di Pietro Osario, capitano spagnolo morto all’età di 33 anni nel 1555.

Questo sepolcro era un tempo era posto nella Chiesa di San Vincenzo dei PP. Domenicani e successivamente trasportato e collocato nella Chiesa di Santa Croce al Monte quando quella di San Vincenzo venne chiusa al culto. L’altra sepoltura custodisce le spoglie di Giovan Battista Romano, barone di Resuttana, morto anch’egli nel 1555 all’età di 26 anni.
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