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La (strana) gita in via "della quarume" a Palermo: dove si mangiava la mitica zuppa calda

Purtroppo in quel vicolo oggi non se ne fa più, e non c'è una targa a ricordarne la storia. Molti di noi non l’avevano mai mangiata, ma se la ricordano ancora

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 12 settembre 2022

La via Caldomai a Palermo

L’ultimo giorno di scuola era bellissimo perché si finiva di studiare. Questo almeno fino a quando non realizzavi che i ricchi vanno in villeggiatura con i ricchi e i poveri con i poveri. Io, Catalano e Carollo ci potevamo permettere la Costa Azzurra solo tracciando con la matita una retta sulla cartina geografica da Palermo a Nizza.

Per quelli come noi la scuola aveva messo in piedi una bellissima iniziativa chiamata "Tempo d’estate" che significava tornare a scuola pure nei mesi di luglio e agosto per attività pseudo-ricreative.

E siccome dentro le classi faceva così caldo che sudavi pure l’acqua del battesimo, e nel campetto da calcio in asfalto rotolavano le palle di fieno come nel deserto, l’unica alternativa era organizzarci piccole gitarelle per la nostra Palermo.

Quell’estate ci accompagnò il professore Terranova perché la suocera era venuta a passare l’estate in Sicilia e, parole sue, dato che non aveva trovato posto alle catacombe aveva dovuto mettersela a casa lui.
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Il tempo di fare l’appello, e che il signor Papa (bidello/autista) recuperasse patente e dentiera, e partimmo col pulmino. La prima fermata fu la bellissima e stupefacente Cattedrale.

«Picciotti - esclamò Terranova - rifatevi gli occhi perché questo è un magnifico esempio di architettura arabo-normanana» «Che cos’è?» chiesi. «Non lo so,» rispose il mio compagno Catalano, «però già c’è la parola "Cattedra" e non mi piace».

Così il professore ci raccontò una leggenda secondo cui un re di nome Guglielmo detto il Buono un giorno s’addormentò sotto un albero di carrubo e sognò la Madonna.

«Gugliè - gli fece la Madonna - piccioli portano piccioli! Tu sei già ricco e quindi ti voglio fare trovare un tesoro seppellito proprio sotto dove stai dormendo tu. Ricorda però: li devi usare tutti per costruire una chiesa».

Nello stesso tempo l’Arcivescovo Gualtiero Offamilio stava facendo costruire pure lui una chiesa. E siccome ogni testa è tribunale, Guglielmo pensò di risparmiare sulla facciata e di spendere sull’arredamento (perché l’importante è stare bene dentro), mentre l’Arcivescovo disse «chi se ne fotte dell’arredamento, deve essere bella fuori così chi passa me la invidia e gli viene un colpo di acidità».

Quelle cui diedero vita furono rispettivamente il Duomo di Monreale, umile fuori e bellissimo dentro, e la Cattedrale di Palermo, sontuosa fuori e modesta dentro.

Sentendo questa storia Carollo si commosse. Pure suo padre e suo zio stavano costruendo una villetta abusiva al mare le cui fondamenta -forse glielo aveva detto anche a loro la Madonna in sogno- andavano gettate tutte in una notte sennò scordati la sanatoria.

Da lì aggirammo la Cattedrale e prendemmo una stradina alle sue spalle chiamata sant’Agata alla Guilla. È proprio in fondo a questa strada che ci sta un’omonima chiesa del XIII molto bella ma che trovammo chiusa.

Dedicata alla santa patrona di Catania, intorno alla metà del 1500 divenne sede di una confraternita composta in gran parte dalla maestranza dei muratori; ed accanto ad essa, alla fine del 1600, fu costruito il conservatorio delle "maddalene pentite", ovvero ex prostitute costrette a prostituirsi che, poverette, non solo erano state appunto "costrette" ma che dovevano pure "pentirsi".

Purtroppo questa chiesa dovemmo accontentarci di vederla solo dall’esterno perché, ci spiegò Terranova, veniva aperta ogni morte di papa.

Questa cosa della “morte di papa” deve avere infastidito il signor Papa, il bidello, tant’è che biascicò qualcosa tra la dentiera e si fece il resto del tour con la mano a toccarsi i gioelli di famiglia.

Tutti insieme continuammo il percorso perimetrando il bellissimo palazzo del marchese Sant’Isidoro. Carollo guardandolo ritornò col pensiero alla villa al mare di suo padre e suo zio.

«Professò, ma come hanno fatto a buttare le fondamenta di questo potente palazzo tutte in una notte?» «Questo e niente.» ribatté Terranova. «Pensa che tempo fa ci stava un politico-mago che i palazzi in una notte li faceva sparire, specie se in stile Liberty».

Proseguendo il nostro tour arrivammo in una strada che dal nome ci fece subito simpatia: via Candelai. «Qui,» continuò il professore «tanto tempo addietro, ci stavano le botteghe dei fabbricanti di candele. E se i palermitani avessero saputo quanto sarebbero costate le bollette della luce oggi, magari non li avrebbero fatti chiudere».

Ed è proprio tra via dei Candelai e la discesa dei Giovenchi che trovammo vicolo Caldomai (con annesso cortile), così denominato perché anticamente ci si faceva uno dei cibi più emblematici della cucina di strada: la "quarume", o che italianizzar si voglia caldume.

Purtroppo in vicolo Caldomai quarume oggi non se fa più, e neanche ci sta una targa a ricordarne la storia. Molti di noi non l’avevano mai mangiata questa zuppa di interiora. Per fortuna trovammo una gentilissima guida turistica col marsupio, che tra un’informazione e un’altra, diceva alle persone dove posteggiare e cambio chiedeva solo i soldi di un caffè.

Grazie alla competenza di questo signore trovammo quasi subito il nostro quarumaro. Il pensiero comune è che si chiami caldume perché effettivamente si mangia molto calda, il professore però precisò che già la mangiavano i greci nelle Agorà siciliane ai loro tempi, e che la parola caldume potrebbe derivare dalla parola "cholàdes", che significa budella.

A vederla immersa nel brodo di carote può fare un po’ impressione, tuttavia è ricca di sostanze nutritive e veniva usata proprio dai greci per svezzare i bambini. Anche i nomi delle parti che la compongono sono pittoreschi: centopelle, ziniere, ventra e matruzza.

Come al solito il professore ne fece fare una maxiporzione che ovviamente mangiammo in comunità. «Vossia deve sapere», fece Terranova al quarumaro, «che pure Empedocle e Archimede sono stati grandi mangiatori di quarume».

«Di qua sono? No, perché chisti cristiani che dice lei duemila lire da me non le hanno spese mai!» Ne sarebbe uscito un dibattito bellissimo ma -questa è la vita- complice il caldo, o forse la colla della dentiera, al signor Papa gli andò un pezzo di quarume di traverso e diventò viola.

La nostra salvezza fu avere tra i gitanti Catalano, che aveva ripetuto tre volte la seconda media e che era comproprietario di un’officina dove, si diceva, ci andavano le meglio femmine solo perché ci lavorava lui che carrozzeria se ne intendeva.

In quattro e quattr’otto tornò in via dei Caldomai dove aveva notato un’Ape 50 con rimorchio. Se non fosse stato per la sua prontezza e per la gentilezza degli abitanti del cortile che ci dissero “le chiavi stanno appiazzate!”, probabilmente il signor Papa non avrebbe potuto accompagnarci più in nessuna gita e gli avremmo portato i fiori al campo santo, magari con un tubetto di colla per dentiere.

Quando il bidello fu dimesso Carollo azzardò una tesi complottista: «Professò, secondo me il quarumaro si voleva fare fuori il signor Papa perché ha un pulmino più bello del suo carretto». «Carollo, è giusto che la pensi come vuoi, ma tutto è bene quel finisce bene. E poi, come diceva la filosofa Ipazia, salvaguardate il vostro diritto di pensare, perché anche pensare male è meglio di non pensare affatto».
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