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La sua storia scritta nel suo nome: Goliarda Sapienza, la vita (vissuta) di una catanese

Difficile trovare per la scrittrice, aggettivi che non scadano nella banalità. Non tutti sanno che ancora oggi c'è un premio a lei dedicato, rivolto ai detenuti che scrivono in carcere

  • 15 ottobre 2021

Goliarda Sapienza

“Goliarda era di temperamento vulcanico e tellurico, almeno in una parte di sé che mal si conciliava con la sua malinconia creando un forte contrasto che però era apparente”.

Con queste parole, Angelo Pellegrino, nello scritto “Ritratto di Goliarda Sapienza”, contenuto nel romanzo l’Arte della gioia, ricorda la figura della scrittrice.

Goliarda nacque il 10 maggio del 1924 a Catania, a San Berillo, un quartiere difficile e malfamato. Quel luogo era una città nella città, dove viveva sia gente onesta, che disonesta. Fra le stradine intagliate nella lava, frequentava l’umanità e imparò a dialogare con gli artigiani delle botteghe, ma anche con coloro che erano definiti “gli ultimi” nelgradino della scala sociale. Dalle prostitute imparò ad utilizzare le parole libere. Quel quartiere fu la sua scuola. Ebbe questo nome in ricordo di uno dei fratelli morto annegato, Goliardo.

Nacque da genitori antifascisti, socialisti utopici e anarchici, da loro apprese l’arte di vivere così com’era, senza maschere. La madre, Maria Giudice, la mise al mondo quando aveva 44 anni e già sette figli da un primo matrimonio. Maria era una donna moderna, una sindacalista socialista e conobbe più volte il carcere per le sue idee. Dopo la morte del primo compagno, si unì a Giuseppe Sapienza, detto “l’avvocato dei poveri”.
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Goliarda crebbe in una famiglia numerosa e conobbe la severità dei fratelli più grandi e del rigore ateo. Il padre, volle evitarle di frequentare la scuola fascista e la fece studiare in casa. Poi, la iscrisse all’Accademia di Arte Drammatica Silvio D’Amico di Roma, dove all’età di sedici anni iniziò la sua carriera di attrice recitando Pirandello.

A Roma trovò una grande libertà e scoprì la pittura. Gli anni della guerra furono difficili e Goliarda s’iscrisse alla Brigata Garibaldi, come combattente nella resistenza e divenne sottotenente. Dopo il teatro incontrò il cinema, cominciando con piccole parti nei film di Visconti e Comencini. In questo ambiente, conobbe il regista Citto Maselli e divenne la sua compagna. Negli anni trascorsi insieme, curò la regia dei suoi documentari.

L’avvenimento che segna il punto di svolta per l’avvio della sua futura carriera da scrittrice è la morte della madre Maria, il 5 febbraio del 1953. La scomparsa della madre scatena in Goliarda una crisi depressiva con tentati suicidi e l’inizio di terapie di elettroshock.

L’esperienza del dolore però riesce a orientarla verso un nuovo rapporto con la creatività. È l’inizio di un percorso di liberazione personale che trasformerà Goliarda in una delle narratrici italiane più all’avanguardia.

Goliarda, attraverso la scrittura, iniziò il proprio intimo percorso di ritorno alla vita. Nel periodo più difficile scrisse poesie e la prima fu A mia madre. Il suo primo romanzo fu Lettera aperta (1967), che raccontava l'infanzia catanese, seguito da Il filo di mezzogiorno (1969), resoconto della terapia psicanalitica con il medico messinese Ignazio Majore.

Le sue pagine erano piene di temi autobiografici. Goliarda era libertaria, rifiutava qualsiasi organizzazione, anche letteraria. Girava con una sacca di lana, dove teneva un taccuino e una penna, l’indispensabile per scrivere. Intanto, la sua vita sentimentale proseguiva.

Sposò, finita la storia con Maselli, il palermitano Angelo Pellegrino, attore, scrittore e professore di latino e greco, di ventidue anni più giovane di lei. In questi anni, Goliarda portava avanti il suo lavoro di scrittrice e si dedicò completamente al libro più importante della sua carriera, che la impegnò dal 1967 al 1976, facendola ridurre in povertà.

Questo libro fu L’arte della gioia, portato a termine nella sua casa rifugio di Gaeta. In queste pagine affrontò argomenti ritenuti fastidiosi in quel periodo, come la libertà sessuale, la politica, la famiglia e la storia.

Per questo il libro ricevette una serie di rifiuti da parte degli editori italiani, ma Goliarda continuò a credervi e a voler dare voce alla protagonista, Modesta, quasi una figlia per lei, la figliache non riuscì a partorire.

L’arte della gioia fu pubblicato postumo, riscuotendo inizialmente indifferenza, poi enorme successo di critica. Goliarda era in anticipo sui tempi e scriveva di tematiche che colpivano molto. I suoi libri eranotaglienti, lucidi, scomodi.

Nel 1980 venne coinvolta in una vicenda giudiziaria. Commise un furto di gioielli in casa di un’amica e così fu rinchiusa a Rebibbia. Si trovava in un periodo particolarmenteduro, viveva difficoltà economiche, non trovava un editore per i suoi libri. A Rebibbia, conobbe ladurezza della convivenza obbligata, ma lì continuò a scrivere ispirata dalle storie dei detenuti e pubblicò il romanzo L’Università di Rebibbia.

In carcere apprezzò i personaggi borderline e i loro racconti, che le permisero di rinnovare la sua scrittura. Lei stessa ammise di aver imparato moltissimo dal carcere. A lei, fu dedicato il premio letterario “Goliarda Sapienza”, ancora oggi rivolto ai detenuti che scrivono in carcere.

Negli ultimi anni della sua vita fu scelta come docente di recitazione presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma da Lina Wertmüller. Goliarda aveva 72 anni, ma continuò a lavorare con passione tra i giovani studenti.

Nel 2003, L’arte della gioia fu scoperto da una scout letteraria tedesca che capì di trovarsi davanti ad un’opera eccezionale. Dopo la pubblicazione in Germania, fu pubblicato in Francia e poi in Italia da Einaudi, nel 2008. Ottenne uno straordinario successo e fu tradotto in 18 lingue e distribuito in 28 Paesi.

Nel 1996, Goliarda fu trovata senza vita nella sua casa a Gaeta. Giaceva sul pianerottolo da circa tre di giorni, nel silenzio che segue una morte improvvisa e solitaria. Sulla sua lapide, c’è una sua poesia, una sorta di testamento: Non sapevo che il buio non è nero che il giorno non è bianco che la luce acceca e il fermarsi è correre ancora di più.
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