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Le mille vite di Blasco, nonno della Baronessa di Carini: quel bellissimo pezzo di masculazzo

Storia di un vedovo allegro, simpatico, cabarettista, pimpante, sempre sbrechisi (alla moda), che ha vissuto tra fortune e disgrazie fino all'ultimo giorno della sua esistenza

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 22 dicembre 2020

Il banchiere e sua moglie, olio su tela (Quenteen Metsys)

“La combriccola del Blasco era tutta gente a posto ma qualcuno continuava a dirne male. Si diceva che quel Blasco fosse stato prima un rospo trasformato non so come, e anche male, in uno strano animale con delle voglie strane”.

Avete presente la storia della povera (cioè povera per dire perché in realtà aveva un sacco di picciuli) baronessa di Carini uccisa insieme all’amante per mano del padre, Don Cesare Lanza, perché nessuno doveva dire che sua figlia bottana fu? Bello elemento di spiaggia questo Don Cesare Lanza, le cose giuste!

Eppure non tutti conoscono quel bellissimo pezzo di masculazzo, vedovo allegro, simpatico, cabarettista, pimpante, sempre sbrechisi (alla moda), e créme de la créme che era il nonno della baronessa: Don Blasco Lanza, barone di Castania. E forse pure Vasco Rossi la sa sta cosa, perché quando dice che la combriccola “era tutta gente a posto” forse vuole significare che gli amici suoi, del Lanza, erano uno meglio dell’altro (c’era da arricriarsi).
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Blasco nasce nel 1466 a Catania (e bello acquisto abbiamo fatto!), anno in cui muore giusto giusto nel giorno di Santa Lucia (anche se ancora non si facevano le arancine) il grande Donatello. In quel periodo come Papa c’era Paolo II, quello che costruì Palazzo Venezia a Roma e che, lo si vede dai dipinti, era uno che gli piaceva mangiare infatti muore a 54 anni a causa di un indigestione di melone.

Per il resto, anche se i Lanza sono sempre stati contrari a questa tesi, si racconta che Blascuzzo fosse figlio di uno scrivano che, siccome soldi per farlo studiare non ne aveva, lo fa entrare in un convento domenicano che, guarda caso, lascia dopo il diploma. Scrivano o no, in questa famiglia dovevano avere la testa quanto una casa perché il fratello maggiore di Blasco era
professore universitario (se così si può dire) all’università di Catania; e pure lui diventa un grande giurista.

Bravo era bravo, ma aveva un talento insuperabile: come abbordava lui le femmine ereditiere non le abbordava nessuno! E infatti prima si sposa la ricca Aloisa di Bartolomeo che gli porta un palazzo a Palermo, il territorio di Trabia, dove poi sarà fatto il castello, e una tonnara che gli rende cento onze l’anno (un sacco di piccioli).

Butta così l’occhio sulla baronia di Castania (perché ancora non è barone) ma ad ostacolarlo c’è il legittimo proprietario, Niccolò Tornabene, che gli dice: “attaccati au tram!” Improvvisamente caput: la moglie Aloisa muore e Blasco pensa bene che il modo più facile di fottersi la baronia è sposarsi la sorella del Tornabene Niccolò. Questa gli porta la baronia, la terra e il castello di Castania, metà della foresta di Porta Randazzo, svariati feudi e le saline di Nicosia (teccà mancia!).

Muore pure Niccolò (pace all’anima sua) e la sorella, quindi Blasco, eredita l’altra metà della foresta ed altri feudi perché quelli che aveva erano pochi. Finalmente il barone di Castania entra nella Palermo che conta. Nel 1509, con l’arrivo del nuovo viceré Ugo Moncada, pure lui uno stinco di santo, se lo trova come il finocchietto nella pasta con le sarde e viene nominato consigliere. Purtroppo per loro accade che il re spagnolo Ferdinando il Cattolico muore nel 1516.

Moncada non dice niente ai palermitani per paura di appizzarci la poltrona, e appena il popolo lo scopre si arma di forconi e bastoni con l’intento di andargli a fare la festa. Contemporaneamente pure ai nobili salgono i cinque minuti perché il tribunale dell’inquisizione (e ci colpa sempre Moncada) inizia ad arrestare baroni, baronetti e ququaraquà solo per spillargli soldi e proprietà; dunque i nobili si alleano con i rivoltosi. “Ci penso io, mbare (compare)! dice a quel punto Blasco Lanza convinto del suo carisma.

Ma che? Appena scende per le strade di Palermo per cercare di sedare la rivolta lo assicutano (inseguono) indemoniati con tutto l’intento di fargli la pelle. “Apposto?” gli chiede Moncada una volta ritornato il Lanza, “apposto la banana!”, risponde Blasco. Tempo niente si forma sotto palazzo Chiaramonte, dimora del viceré, una folla interminabile di persone che, tipo quando Johnny Stecchino si trova al teatro, gliene urlano di tutti i colori: “Ce la devi pagare Johnny! Non c’è prezzo per quello che hai fatto!” “E quanto costano le banane a Palermo, oh?!” il popolo sta per fare irruzione a palazzo ma Moncada, Blasco Lanza, e altri quattro al bar, riescono a scappare tramite un’uscita secondaria che non conosce nessuno e si imbarcano per Milazzo.

Tornato a Catania, sua città natale, Blasco comincia fare l’incompreso “Ce l’hanno tutti con me... È che sono catanese... M’hanno gridato fuori catanese...”, insomma cerca di salvarsi in calcio d’angolo. Quello che però Blasco non poteva sapere è che i palermitani avevano mandato una delegazione di ultras per mettere in chiaro che Blasco Lanza era stato buttato fuori da Palermo perché non valeva manco una lira, mica perché era catanese.

Passa poco tempo e, infatti, lo assicutano pure da Catania: il barone di Castania stavolta si va a nascondere nel Castello di Aci, per poi riunirsi di nuovo con quella gran brava persona di Ugo Moncada. Pure la Corte del re Carlo V (che ancora aveva 16 anni e i brufoli) li manda a chiamare da Bruxelles per avere una qualche spiegazione; per fortuna a sparare fesserie erano bravi e in qualche modo se la cavano. “Appena uscite”, gli fanno i membri Corte “uno a destra e l’altro a sinistra! Vi pare a voi mettete a fare di nuovo brinchellanza, ah!?” E cosi, Moncada da una parte e Blasco Lanza ancora una volta a Palermo dove però trova il nuovo viceré Ettore Pignatelli.

Manco il tempo di sedersi di nuovo sulla poltrona di consigliere e nel 1517 scoppia un’altra rivolta ancora più violenta. “Qua c’è qualcuno ca porta scalogna!”, esclama il viceré guardo storto Blasco. Un’altra volta la folla, un’altra volta “ce la devi devi pagare Johnny! Non c’è prezzo per quello che hai fatto!”, solo che, a differenza dellla prima volta, il popolo entra a palazzo Chiaramonte con l’intento di lanciarlo dai tetti. Con un trucco da mago Blasco sparisce. Lo cercano ovunque, pure dentro le cripte di San Domenico, ma nessuno lo trova.

Non potendo sfogarsi con lui, il popolo acchiappa e gli brucia il palazzo. Niente succede? A Termini Imerese apprendono la notizia e partono alla volta di Trabia devastandogli il trappeto e la torre. Arrestato dallo stratigoto di Messina, esiliato a Tripoli, ricondotto e incarcerato a Milazzo, e tanti altri guai, nel 1525 Blasco è di nuovo in libertà a Palermo. Decide, forse per via di illuminazione, di ritirarsi una volta e per tutte a vita privata fino all’otto ottobre 1535, giorno della sua morte.

Ad oggi è ancora a Palermo seppellito nel nel convento di Santa Cita.
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