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Le "scannate" all'ultimo sangue per il più bel castello: chi vinse tra Trabia e San Nicola

Vi raccontiamo cosa successe a due ricchi signori che nel 1450, invece di godersi i piccioli, si diedero battaglia fino a che non ci scappò il morto

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 10 maggio 2023

Castello di San Nicola e il Castello di Trabia

Nonna era una persona pacifica, quando dormiva. Faceva un sugo di quelli che non se ne vedono più, e, non si sa perché, imbastì per quasi tutta la vita una personalissima crociata contro la sua dirimpettaia per chi avesse la casa più bella. E così, quando il giorno delle pulizie Donna Tatè si stricava le persiane, pure lei si metteva a stricare le persiane ancora più forte.

I romani dicevano “Invidus a propria roditur invidia”, cioè "l’invidioso è roso dalla sua stessa invidia”, ma io poco ci credo perché nonna campò 99 anni e fino alla fine sputazzate e tirate di capelli con Donna Tatè.

"Corsi e ricorsi storici", sosteneva il filosofo Gianbattista Vico teorizzando che l’esistenza altro non fosse che un perpetuo e continuo ripetersi di tre cicli: età divina, età poetica, età eroica.

Molto più a pane e panelle, significa che "Munnu ha stato e munnu sarà" e "O’ cavaddu picchiatu ci luci u pilu", ovvero che il mondo non è mai cambiato di tutto sto granché e che una cosa invidiata diventa ancora più bella.
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Questo pressappoco è quello che successe a due ricchi signori che nel 1450, invece di godersi i piccioli, si scannarono fino a che non ci scappò il morto.

Siamo nella Sicilia del XV secolo, non molto lontano da Palermo ci stanno due piccole borgate Marinare: Trabia e San Nicola Tonnara. Sono anni di grande fermento quelli.

La Guerra dei cent’anni va fuori corso e dura 116 anni, Giovanna D’arco si taglia i capelli, Papa Nicolò V si mangia le mani perché gli ottomani conquistano Costantinopoli, le coste sono invase dai pirati, ogni tanto un colpo di peste, carestie a intervalli regolari tipo gli sconti al centro commerciale e la corona aragonese nomina viceré di Sicila uno che si chiama uguale all’ultimo modello di smartphone: Lope III Ximénez de Urrea y de Bardaixi.

Proprio a Palermo si concentra la "crème de la crème" dell’alta borghesia e della meglio nobiltà, perché è lì che girano i piccioli, lì che abita il potere.

Via Maqueda non c’è ancora (spunterà nel 600) e per il Cassaro è un andirivieni di nobili che leccano i ricchi per i soldi, di ricchi che leccano i nobili per i titoli, di poveri che leccano a tutti e due per un pezzo di pane e di morti di fame che non leccano più a nessuno perché ormai gli è seccato pure a campare.

“Monaci e parrini senticci a missa e stoccaci i rini”, dicono; sì, ma solo di nascosto perché di fatto i parrini sono i pezzi da novanta. D’altronde non si muove una foglia che il parrino non voglia. Benedettini, basiliani, cappuccini, carmelitani, agostiniani, francescani, domenicani, ci stanno tutti in città.

I domenicani nella fattispecie sono come vuole il Signore: ancora qualche anno e a Palermo combineranno il Viva Maria con Torquemada e quella bellissima pensata del Tribunale dell’Inquisizione. Peccato, qualcuno avrebbe dovuto diglielo a Tommasino De Torquemada “Tommà, vedi che chiù longa è la pensata, chiù grossa è la minchiata!”. E invece no.

In compenso fastosi palazzi s’innalzano verso il cielo e per le strade i cognomi più importanti fanno a gara a chi ce l’ha più grossa, la carrozza. Certo, i cornuti non mancano (quelli non mancano mai) e manco le buttane, soprattutto dove ci stanno le campane.

Abatellis, Chiaramonte, Santapau, Beccadelli, Moncada, Ventimiglia, De Luna, Tagliavia, chi conte della gnagna, chi barone di questo grandissimo feudo, fanno tutti a gara per ritagliarsi un posto di rilievo nella politica che conta.

In mezzo a questo insalatone ci stanno pure Leonardo Di Bartolomeo e un altro Tommaso che di cognome però fa Crispo. Al primo, che ha ricoperto il ruolo di protonotaro e presidente del Regno di Sicilia, viene data enfiteusi (una sorta di dare in gestione) Trabia, dove ancora ci stanno quattro gatti che perlopiù lavorano nei mulini e alla pesca dei tonni.

Il posto è bello, tira aria dal mare e in più c’è una torre dalla quale Leonardo può mangiare le nespole e sputare i noccioli. Sarà la stessa torre attorno alla quale il genero Blasco Lanza farà costruire il castello che prenderà il nome di Castello Lanza Branciforte.

Il secondo, Tommaso Crispo, invece ha il castello di San Nicola, pure quello con una torre circolare, dotato di una delle prime tonnare regie di tutta la Sicilia. Il problema però che Trabia e San Nicola distano pochi chilometri l’una dall’altra, e il territorio è troppo piccolo per due castelli, ancora più piccolo per due cristiani che capiscono solo piccioli e comandare.

Come mia nonna e la sua dirimpettaia, comincia a nascere una disputa per la torre più bella, per i frutteti, per la tonnara più pescosa. Quando quest’occhio non può vedere l’altro c’è poco da fare e cominciano sparlate, controsparlate e sfregi.

Come quelli di Leonardo, che sapendo benissimo che il tonno arriva sempre da est verso ovest, invece di aspettare che il banco di tonni passi -come era regolamentato per garantire il pesce a tutti- getta le reti di proposito e a Crispo manco gli fa arrivare l’anciova.

Di contro il signore di San Nicolò si ritaglia i confini come gli dice la testa la mattina. Le Scannatine e le calcagnate sarebbero all’ordine del giorno, se non fosse per il fatto che appartengono ad una certa società e devono mantenere un certo decoro.

E infatti i giochi si fanno ancora una volta a Palermo, dove Tommaso e Leonardo passano la maggior parte del tempo e dove, come tutti, intessono le trame per i loro affari. Eh, ma a nave rotta ogni vento è contrario; fomenta oggi, fomenta domani, il rampicante si mangia tutto il castello.

Destino vuole che nel 1450 scoppia la solita rivolta popolare perché i ricchi si conservano il grano nelle cantine per fare alzare il prezzo e poi rivenderlo maggiorato.

La gente comune non ha neanche più gli occhi per piangere, figuriamoci la pazienza per accollarsi gli aumenti del pane. Leonardo di Bartolomeo, che mulini ne ha, e la cosa gli riguarda, si mette in mezzo per sedare la rivolta.

Tommaso Crispo si fa la pensata che forse è arrivato il momento per qualcuno di levarsi dal cantaro e si schiera in favore del popolo. Quel maggio Leonardo e Tommaso si trovano per volere del fato l’uno di fronte all’altro, nemici anche quella in veste.

Le vecchie rogne risalgono e le legnate partono per tutte le ruote. La rivalità di una vita finisce quel giorno, insieme alla rivolta del pane, insieme alla convinzione di Leonardo di potersi portare le ricchezze pure dopo la morte.

Ce lo racconta il terzo Tommaso di questa storia (Tommaso Fazello), padre domenicano, vissuto un secolo dopo, che un po’ come me aveva la passione per queste belle minchiate o storie del passato: “Tommaso Crispo fu quello che uccise Lionardo di Bartolomeo, Signore del Castello di Trabia, e protonotaro del Regno, per causa di gelosia de’ detti Castelli di loro domini”.
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