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I bradipi di Perriera nel futuro da incubo dell’umanità

  • 22 novembre 2004

Con “Buon Appetito” (regia di Michele Perriera, con Maria Rosa Randazzo, Roberto Burgio, Serena Barone, Salvo Equizzi, Marco Morana, Flavio Prestigio e Chiara Randazzo, scene di Fabrizio Lupo, musiche originali di Massimo Pastore) e “Dove hai lasciato la sua barca?” (diretto e interpretato da Pamela Villoresi) in scena a Palermo ai Cantieri culturali alla Zisa nello spazio Teatès dal 19 al 21 novembre, si concludono le rappresentazioni degli “Atti del bradipo”, famosa raccolta di Michele Perriera, scritti conturbanti sul futuro dell’umanità, fulcro della manifestazione “Per Michele, 40 anni di teatro di Perriera”, con la quale la città ha celebrato la lunga e illustre attività dell’artista. È l’inquietudine l’elemento dominante su tutti gli allestimenti, siano essi pièce tradizionali o lavori innovativi, insieme con quell’atmosfera angosciante, talvolta purtroppo futuribile, che aleggia ovunque, anche per tutti e tre gli atti di “Buon Appetito”, l’unico lavoro diretto dallo stesso autore fra quelli presentati.

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Qui è il rigore e l’eleganza dell’insieme, dalla perfezione di tutti gli interpreti (notevoli le fissità dell’automa e dell’operatore alimentare) alla linearità inquietante degli elementi scenografici (grande il disagio suscitato nello spettatore dalle scenografie, bradipo incluso), a rivelarci l’inconfondibile mano del maestro che sposa i turbamenti originati da un raffinato testo dagli argomenti assai comuni all’oggi (l’ansia di una donna separata, nei confronti dell’ex-marito riguardo la propria figlia), inseriti in un contesto fantastico dai contorni bui (tutti sono soggetti ad un inquietante controllo dell’umore da parte del sistema), con l’essenzialità dei movimenti sulla scena ridotti al minimo, offrendo risultati di agghiacciante sconforto. Risulta poi assai interessante confrontare la diversa visitazione del racconto “Dove hai lasciato la sua barca?”, l’imminente morte di uno sconosciuto in un letto senza che una donna possa far nulla per impedirlo, presentato prima come spettacolo – installazione nella versione di Geppino Monti e poi nell’intensa interpretazione della Villoresi sotto forma di partecipato monologo dai tanti interrogativi senza risposta.

Nel lavoro del Monti, invece, troviamo una donna che legge sulla scena (l’attrice Kadigia Bove) con un letto sul fondo e, grazie ad una narrazione intramezzata da immagini (che si materializzano su un telo posto davanti al piccolo palco, pronto a sparire quando opportunamente illuminato) di riti lontani e celebrazioni di quotidiano terrore per guerre che ben conosciamo (grottesco confronto fra differenti contegni, la paura degli ostaggi e la professionale freddezza degli speakers televisivi), alla fine, ma solo alla fine, lo spettatore intuisce che chi sta morendo in quel fondo di letto sia l’umanità. Un gocciolio continuo d’acqua, un abbaiare di cani, rumori d’auto e voci lontane in sottofondo, una quotidianità disarmante nel salotto di una persona qualunque nella quale l’irreale inaspettatamente irrompe, in una stupenda stridente contraddizione. Questo invece è il primo spettacolo della manifestazione, “Ti ricordi” per la regia di Roberto Andò. Qui il pubblico, inizialmente, nella sua precisa consapevolezza di ospite inatteso, si sente protagonista e partecipe dell’azione, grazie anche all’interessante installazione presente.

Peccato però che dopo un po’ questa sensazione si stemperi e il grande teatro del quale avvertivamo i presupposti si dissolva, lasciando il posto alla noia, e un testo veramente bello rimane confinato entro gli spazi ristretti del radiodramma. Ma siamo a teatro e al corredo perfetto di suoni e rumori, nel quale alberga la voce dalle splendide risonanze di Umberto Orsini e talvolta quella dell’anziano protagonista, occorre aggiungere dell’altro e anche quell’installazione che tanto efficacemente ci aveva accolto nel suo grembo in principio, ora, perdendo ogni valenza espressiva, arriva quasi a respingerci dall’azione, riducendosi a mero intellettualismo, e l’inquietudine che si sprigiona dagli interrogativi che dal bel testo sortiscono, non arriva a farsi emozione come potrebbe. Poi quale ulteriore sogno angoscioso di un’umanità senza più alcuna etica ecco “Injury Time” per la regia di Gianfranco Perriera (con i bravi Roberto Burgio, Consuelo Lupo ed Elena Pistillo), un triste futuro nel quale un’anziana donna, costretta ad una vile scelta dal sistema, piuttosto che morire accetta di essere trasformata in bradipo, e quindi il singolare monologo “Il polverone”, per la regia di Daniela Ardini, interpretato dalla brava Giuditta Perriera, assai convincente nei panni, laceri ed abbondanti, di un farneticante personaggio, un ultimo e unico sopravvissuto di un qualche apocalittico crollo.

Costui, nel suo rievocare frenetico della fine di una fanciulla precipitata sul selciato di un’ipotetica città, fra ricordi e una voce fuori campo dalle tante possibili identità (padre, sorella, figlia, non si capisce ma non importa, tutto crea inquietudine), grazie anche alla splendida scenografia assai parlante di Fabrizio Lupo, un cumulo di resti di quotidianità di una perduta umanità, e alle riprese video a mo’ di lanterna magica, con immagini dell’attrice in diretta, intervallate fra altro da vedute di strade cittadine, riesce ad ammaliare lo spettatore trascinandolo in un vortice di paurosa solitudine senza ritorno. Concludendo, quanto visto, e si tratta di spettacoli di certo non semplici tutti costruiti con stile, conduce il pubblico lungo i meandri del labirinto dell’inquietudine, nel quale il totale smarrimento fa conoscere la paura ancestrale del vivere.

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