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L'amore di Rubini per il Sud tra famiglia e tinte noir

La terra
Italia, 2005
di Sergio Rubini
con Fabrizio Bentivoglio, Claudia Gerini, Sergio Rubini, Massimo Venturiello, Paolo Briguglia

La famiglia, odiata o amata che sia, vicina o lontana, inesorabilmente segna in profondità il nostro essere, condiziona la nostra natura, nel bene e nel male con predominanza dell’uno o dell’altro a seconda della qualità di vita sociale del caso, per bene o delinquenziale. E tali influenze permangono anche quando dal nucleo familiare ci si allontani anzitempo: non c’è nulla da fare, le nostre origini, belle o brutte che siano, sono sempre pronte a manifestarsi non appena si verifichino quelle condizioni tali da richiamarle in superficie. Il tema delle origini è assai caro al simpatico regista pugliese Sergio Rubini che lo pone al centro del suo ultimo lavoro, “La terra”, bel lungometraggio con gli ottimi Fabrizio Bentivoglio (protagonista anche del precedente film di Rubini “L’amore ritorna”, altra rivisitazione dello stesso tema), Paolo Briguglia, Emilio Solfrizzi, Massimo Venturiello, Claudia Gerini e lo stesso regista, che costruisce per sé un personaggio perfetto sin nei minimi particolari, quale squallido boss di provincia. La vicenda analizza il legame fra quattro fratelli, altro elemento fondamentale del film, prendendo spunto dalle controversie familiari sorte intorno alla vendita di una vecchia azienda agricola di famiglia. Il distinto professore Luigi Di Santo (Bentivoglio) è un maturo professore di filosofia di origine pugliese che insegna a Milano, dove si è trasferito tanti anni prima a causa del pessimo rapporto con il padre. Luigi e i suoi fratelli, Michele, Mario e Aldo, vorrebbero vendere una proprietà di famiglia, una tenuta quasi abbandonata, ma non tutti sono d’accordo.

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Ad arricchire i toni del racconto con qualche tinta noir, contribuisce l’omicidio di un personaggio oscuro, il boss interpretato dallo splendido e irriconoscibile Rubini, evento questo che finisce per coinvolgere tutti e quattro i fratelli. Ancora una volta Rubini ci racconta una storia con quel tocco di grottesco che lo caratterizza, colorando di tinte fantastiche la sua Puglia che qui ci appare più misteriosa e desolata che mai, nella propria bellezza e nel proprio abbandono, come gran parte del meraviglioso sud d’italia (e pur essendo palermitana questa penna, non si tratta di campanilismo). È un racconto carico di passioni forti quello che ci propone Rubini, antiche inquietudini e rinnovati disagi esistenziali con i quali deve fare i conti il protagonista, il bravo Fabrizio Bentivoglio, costretto a rivisitare un proprio passato problematico e violento dal quale pensava di essersi per sempre allontanato, ma non solo. Sono anche le inquietudini collettive di un presente reso sempre più torbido dalle oscurità individuali pronte ad affiorare qui e là e che il gusto per il fantastico del regista riesce a concertare in una sorta di corale paesaggio a tinte fosche. Quel che più affascina delle immagini, e che costituisce la maggiore peculiarità espressiva di Rubini, è il gusto per l’orrido (al quale avrebbe anche potuto concedere qualcosa di più) che risulta la chiave vincente nel descrivere lo spaesamento e lo stupore che un occhio intelligente e vivo prova di fronte alla meraviglia delle terre assolate di un immutabile sud sempre uguale a sé stesso. E non solo la riuscitissima figura del boss o del fratellastro Aldo, cattivo più a parole che con i fatti, ma anche la violenza di qualche immagine, violenza che trascende nel grottesco stemperandosi quindi (le botte date ad un povero inabile, per esempio), dà vita ad un paesaggio che altrimenti parrebbe immobile. Insomma, pur se fra litigi e delitti, un'intricata dichiarazione d’amore per il legame fra fratelli e per il Sud, cosa volere di più da un meridionale?

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