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L’estasi di mare, ovvero gli involtini delicati

Le sciarre in cucina sono all’ordine del giorno, come per la strada. Si potrebbe creare un parallelismo tra le due attività, paragonabili proprio perché toccano dei punti nevralgici dell’orgoglio personale. Ma se esistono dei codici obbligatori per la strada, in cucina non c’è una vera e propria regola. Anzi, si dà via libera alla fantasia, alla sperimentazione, ai gusti. Le ricette variano in dipendenza del luogo in cui si vive, dello status economico, del lavoro svolto: è ovvio che un contadino avrà più facilità a recuperare verdure, ortaggi rispetto a un pescatore; che in campagna si coltivano cose diverse rispetto alla costa; che in certe zone alcuni ingredienti, non entrando nella tradizione, non vengono utilizzati.

Chi viaggia porta con sé abitudini che hanno sapori lontani, che regalano un pizzico di esotico e utilizzerà quei metodi anche nella preparazione dei piatti. La cucina è curiosità, estro, passione e, senza dubbio, buon gusto. Proprio per la difficoltà di trovare queste caratteristiche, veniva riservato l’appellativo di maître ai cuochi dei Monsù, dei signori, un omaggio alla bravura, qualità necessaria per svolgere un compito tanto importante, altrimenti demandato alle persone responsabili della sopravvivenza, i genitori.

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Le famiglie più influenti facevano a gara per garantirsi l’assunzione del miglior chef. Era segno di potenza avere al proprio servizio un cuoco degno di questo nome! Ogni casata aveva la propria cucina, che veniva tramandata grazie a piccole comparse, che non hanno mai avuto voce nella Storia: le cameriere. Queste curtigghiarelle riferivano ciò che vedevano alle mamme e alle nonne e già si aveva un primo scollamento con i diktat originari. Le popolane poi traducevano quelle ricette utilizzando gli ingredienti che avevano a disposizione.

I caponi venivano sostituiti con le melanzane, i beccafico con le sarde. Un piatto che di per sé è un’estasi sono gli involtini di pesce spada. Dal sapore delicato, si basa su un equilibrio molto fragile. È necessario utilizzare le parti grasse del pesce, la surra è la migliore, resta compatta e non si asciuga in cottura. La farcia cambia a seconda delle città. A Palermo è fatta con un misto di pangrattato, pecorino grattugiato, passolina e pinoli, aglio tritato, prezzemolo e qualche volta succo di pomodoro pelato per amalgamare il tutto, ma è preferibile ammorbidire il composto con un po’ d’acqua e olio d’oliva, per non coprire il sapore del pesce. A voi la scelta di dargli una scottata in padella a fuoco lento e per pochi minuti, cosa che, secondo me, contribuisce alla morbidezza dei fagottini.

Una volta pronto il condimento, dovrete battere le fettine delicatamente e spennellarle con l’olio, riempirle con quella profumata poltiglia e arrotolarle chiudendo bene i lembi e fermandoli con uno stecco. Alternate involtini, fette di limone e qualche foglia di alloro. Metteteli in forno o alla brace con un filo d’olio. Una volta pronti si condiscono con il salmoriglio preparato con olio, prezzemolo, aglio tritato, menta e limone, sale e pepe. Si servono fumanti. Si possono anche panare prima di infilarli negli stecchi, così sono eccellenti alla griglia. Anche l’interno cambia, come dicevo: il pangrattato e l’aglio rimangono, il prezzemolo anche, ma vanno aggiunti i capperi dissalati, il caciocavallo grattugiato e il pepe.

A Messina gli involtini si cuociono alla ghiotta, in un sugo fatto con cipolle soffritte, salsa fresca e non troppo densa, sedano, olive verdi e capperi. Il ripieno è fatto con pangrattato, parmigiano grattugiato, fettine sottili di caciocavallo. Una volta pronti e steccati, come si dice in termini gastronomici, si adagiano nel tegame con il sugo, si lasciano cuocere dieci minuti per lato e poi si servono con pane rimacinato croccante per assuppare quell’ottimo sughetto, che sarebbe delittuoso lasciare nel piatto. Non è fino, ma è tanto buono. Sulla questione del perché le cose buone sono brutte o fanno male, mi riservo di scrivere un saggio e indire una petizione per l’inserimento d’ufficio di certe pratiche necessarie per l’appagamento del palato.

L’abbinamento

E’ sempre affascinante trovarsi davanti ad una pietanza come questa, un’autentica meraviglia per il palato di noi appassionati.
La caratteristica che colpisce il degustatore ancor prima di aver assaggiato il piatto è il profumo aromatico e persistente che riempie tutta l’area circostante. Intuizione che viene immediatamente confermata a livello gustativo. Su questo stesso piano è impossibile non rilevare la tendenza dolce legata alle carni del pesce, la sapidità ed infine la grassezza. Caratteristiche che, come di consueto, indirizzano la nostra scelta sul giusto vino da abbinare.

Per i nostri involtini la soluzione ideale sembra essere lo Chardonnay prodotto nella Doc Sambuca di Sicilia. E’ un vino di grande spessore aromatico, persistente, morbido, fresco di acidità e sapido: peculiarità che contrappongono e bilanciano in modo armonico le note gustative del nostro piatto. Tra gli scaffali della vostra enoteca scegliete quello che ha subito qualche anno di affinamento in barriques, la pertinenza in questo caso è assicurata.

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