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La Chiesa insegna (come mangiare bene)

La Chiesa ha sempre invitato alla morigeratezza degli usi e dei costumi. Condannato l’eccesso, condannate le feste in certi periodi dell’anno, condannata la gola. Sembra quasi, per paradosso, che se mangi pane schitto e fai penitenza, magari usando poco sale e olio, sei più vicino alla benedizione! Lungi da me voler istigare all’abuso, ritengo, però, controproducente demonizzare qualcosa, perché in genere, dopo poco, si ha il risultato contrario. Avete presente il divieto di mangiare dolci e il barattolone di creme di cioccolato sotto il letto? È strano, inoltre, osservare che i vescovi e gli alti prelati siano, tranne rare eccezioni di una tristezza infinita, tutti rubicondi e pasciuti, amanti del buon vino e della buona tavola. Non è lecito pensare che siano meno vicini al Signore o meno sensibili ai dettami di Santa Madre Chiesa!

Un vecchio detto suggerisce di andare nei posti dove mangiano gli uomini di Chiesa, lì è sicuro che si mangerà bene! È notorio che alcuni fra i migliori cuochi lavorino nelle cucine di Palazzo del Vaticano, che i salumi dei frati sono ricercatissimi e i dolci delle suore, che detengono gelosamente un patrimonio di inestimabile valore, che dovrebbe essere diffuso, hanno il sapore di cose passate, permettono il collegamento generazionale, che travalica ere geologiche per arrivare fino ai nostri palati. Pensate quale tragedia sarebbe, ora che le vocazioni sono in netto calo, se queste suore morissero senza lasciare eredi a conoscenza di queste ricchezze inestimabili! Una disgrazia!

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Non sono brave solo nei dolci, se la cavano, a dir poco, anche con gli sformati di verdure, con le carni, con i primi. Famose le paste fresche, come un bel piatto di maccheroni con un sugo piccante e profumato. La pasta palina, per esempio, una delizia a base di pomodoro e acciughe o sarde salate. La ricetta è di proprietà delle suore del Convento di S. Francesco. Si ipotizza nascesse bianca prima dell’arrivo del pomodoro, l’unico dono americano privo di controindicazioni! La versione più famosa è quella rrussa. Anche per questa ricetta ci sono molte versioni: chi fa ‘ngranciare la cipolla, poi aggiunge la passata e infine le sarde fresche; chi soffrigge l’aglio, poi unisce la salsa e le sarde salate, chi mette passolina e pinoli, rinvenuti in acqua calda, e chi li evita.

A me piace la versione forte, decisa. Soffriggo 2 o 3 spicchi d’aglio, quello rosso, siciliano che fa avvampare, in olio extra vergine, unisco la salsa già pronta, i pelati sono troppo acquosi, 1 chiodo di garofano, una manciata di passolina e pinoli, già ammollati, un po’ di peperoncino e cinque minuti prima di spegnere faccio sciogliere 100 gr di sarde salate, quelle grosse, appena pulite dall’ambulante. Atturro la mollica e cuocio la pasta. È preferibile quella lunga, ruvida, che, attorcigliandosi al mestolo, trattenga il sugo, adagiandosi, poi, a mo’ di collinetta nel vostro piatto, trasportando con sé la sua dote. Infine cospargo con la mollica la vetta e infilzo quei callosi maccheroni, con la goduria dell’impazienza. Alla fine se sono sola a contemplare i resti di ciò che fu, mi impegno nella raccolta differenziata del sugo con il pezzo di mafalda croccante, consapevole che, purtroppo, sono ben lontana dalla via della purificazione.


L’abbinamento

Le caratteristiche gustative della nostra pietanza sono numerose e variegate. Quelle maggiormente riscontrate durante la degustazione sono la tendenza dolce legata all’amido della pasta, la sapidità delle sarde, la speziatura dei chiodi di garofano e infine l’aromaticità del basilico. Di conseguenza il vino in abbinamento dovrà essere morbido e di buona persistenza, mediamente alcolico e dotato di freschezza gustativa. L’abbinamento per tradizione suggerisce di optare per il Sambuca di Sicilia DOC nella tipologia bianco, un vino prodotto nella provincia di Agrigento e in alcuni comuni in provincia di Palermo.

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