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“La Mennulara”, intervista a Simonetta Agnello Hornby

  • 30 agosto 2005

E’ una recente scoperta dell’editore Giangiacomo Feltrinelli; due libri al suo attivo “La Mennulara” (anno 2001) e “La zia Marchesa” (2005); palermitana tutti i giorni, nonostante viva a Londra dal 1972 e divida il suo impegno professionale tra lo studio legale di Brixton e la presidenza del Tribunale di Special Educational Needs and Disability; vanta un esordio fra i più brillanti – oltre 500mila copie vendute della sola “Mennulara” (tra Italia, Francia e Germania) –anche premio Forte Village (2003), Alassio 100 libri (2004) e Stresa (2004). Parliamo di Simonetta Agnello Hornby.

Signora Agnello Hornby, “La Mennulara” è stato un bell’esordio per Lei, un grande successo di pubblico che sbarcherà il prossimo autunno anche nel Regno Unito. Come nasce?
Nasce per una strana coincidenza. Un provvidenziale ritardo aereo della British Airways, durante le mie peregrinazioni tra Londra e Palermo. Proprio così, lo ammetto candidamente. E’ stato a Fiumicino l’ispirazione dell’intero schema del romanzo. Un anno da quel giorno ed era completato. Non a caso l’ho dedicato proprio alla compagnia inglese.

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E il secondo e ultimo, “La zia Marchesa”?
Un ricordo infantile. L’enigma di un personaggio lontano, una parente detta la zia marchesa. Non l’ho mai conosciuta ovviamente (la zia visse tra la fine dell’ottocento e la prima parte del secolo scorso), però era costantemente presente nelle imprecazioni di famiglia. Una vera megera a cui attribuire ogni colpa; a dire d’altri il concentrato delle peggiori qualità umane. Neanche Pirandello, in una sua novella, fu tenera con lei. Questo lo seppi anni dopo, quando lessi quelle pagine e da quel momento il nobel conterraneo si giocò la mia umana simpatia. Un po’ più di rispetto, suvvia. Neanche i miei familiari, però, calmarono le sete di curiosità. Chiedevo da bambina chi fosse la zia marchesa, sentendomi rispondere: “niente, una che morì”. Questo mistero non poteva che alimentare la mia curiosità, da qui la molla emotiva, una sorta di giustizia differita: dipingere un personaggio, pur con i suoi difetti, ma è vero “anche” positivo. Ai lettori l’essere giudici.

Nei Suoi racconti nobiltà e servitù sono infelici, perché?
La vita in sé è fatta di ingiustizie, tante da dare tristezza. Nella “Mennulara”, ad esempio, è proprio il dottor Mendicò che afferma “La nobiltà ed i poveracci hanno molto in comune, ma non lo sanno”. Ebbene è proprio in questa comunione il nocciolo stesso della vita. Per me scrivere corrisponde a cercare, cercare nella vita è trovare l’allegria e la contentezza; anche se queste traggono spunto dalla tristezza. Ciò che accomuna i miei personaggi principali è il “fraintendimento”, quell’essere infelici perché fraintesi e il loro dover lottare per far valere le ragioni ed affermare la propria felicità. Insomma, un’immagine reale ma positiva.

In che modo vede la Sicilia: nell’aristocrazia, nelle divisioni classiste, nel tempo, nella mafia?
Le divisioni classiste? Ritengo l’aristocrazia una cosa stupida. Non ha avuto la capacità di salvaguardare il proprio avvenire, divenendo altresì fonte di quei conflitti di cui ancora oggi (in parte) sopportiamo le nefaste conseguenze. La Sicilia nel tempo? Il cambiamento epocale per me, più che nel 1860 (l’unificazione nazionale, la cacciata borbonica, l’instaurazione di un nuovo ordine sovrano coi Savoia) si ebbe ancor più già da prima. Retrodaterei il tutto al 1812 (la riforma feudale e l’abolizione del maggiorascato). Ho affrontato, sempre riguardo al tempo, due ambientazioni nei miei scritti; quella di una Sicilia anni sessanta del secolo scorso (La Mennulara) e quella di un’Isola che oscilla tra la fine dell’ottocento e gli inizi novecento (La Zia Marchesa). La mafia? Bisogna distinguere il “fenomeno” nel suo rapporto con l’individuo e con la comunità di cui esso fa parte. Il siciliano ha ancora oggi timore di confrontarsi sul tema, specie nella comunità. Io considero molto interessanti e di estrema efficacia la bravura dei mostri sacri; gli individui come Sciascia e Camilleri, due opposti apparenti. Camilleri, per esempio, non adotta mai (nei suoi scritti) apertamente la parola “mafia”. Ciò nonostante, nell’ironia nei suoi racconti, il messaggio di contrasto ha una forza predominante e una perenne presenza.

Che stile adotta nel Suo scrivere, legge molto?
Strano a dirsi, ma leggo poco. Ho scarsa dimestichezza con la letteratura italiana; più che altro ho buon interesse per la contemporanea inglese e quella classica francese. Fermo restando alla sicilianità letteraria: Sciascia, come primo esempio, e De Roberto, per quella passata, poi gli altri del novecento. Lo stile del mio scrivere, invece, essendo alle prime armi, si limitava alle mie esperienze legali ed anglossassoni. Pochi aggettivi, innanzitutto. Il linguaggio inglese è molto scarno ed essenziale, poi un’impostazione professionale a metà strada tra una memoria difensiva e una comparsa conclusionale. Lo schema racchiude: l’evento, i fatti che hanno condotto all’evento, le prove a favore e contro, le conclusioni da sottoporre a giudizio. Nella Mennullara, per fare un caso concreto, questo schema è stato rispettato. L’eroina nasce morta (prima scena il letto e il medico che constata il decesso), poi si procede con una ricostruzione a ritroso della sua persona (per bocca d’altri personaggi), poi tutte le azioni (in questa fase si passano al setaccio i testi pro e contro l’eroina), si caratterizzano le vicende e si tratteggia il suo carattere; in ultimo, si mettono in chiara luce gli elementi principali da sottoporre a giudizio (del lettore, ovviamente). Nessuna influenza da parte dell’autore; l’assoluzione o la colpevolezza sono nelle mani del lettore. La principale difficoltà del mio scrivere, invece, è proprio nell’italiano scritto. Nonostante lo parli – mantengo vivo in famiglia il linguaggio (un misto di italiano e siciliano) – non avevo che scritto in inglese dopo i 21 anni. Adesso faccio almeno otto stesure dei miei scritti, dopo aver buttato giù – secondo ispirazione del momento – lo schema principale, poi adotto tre vocabolari: inglese, italiano e inglese-italiano.

Che ruolo deve avere lo scrittore nel mondo della comunicazione di oggi?
Più che un ruolo penso che lo scrittore debba interessare. Lo scrittore – come ogni artista d’ingegno – è parte di un meccanismo sociale, la sua aspirazione deve essere quella di trasmettere qualcosa. Faccio un esempio. Io leggo poco, anzi pochissimo, più che altro mi dedico alla ri-lettura. Attualmente sto rileggendo “Ovidio, le metamorfosi”. Vista così dalla parte del lettore – di me che leggo – una lettura o (meglio) ri-lettura classica non può che rinfrancare lo spirito; in questo modo chi legge partecipa alla libertà di chi scrive e nello stesso modo si ha un rapporto di reciproca liberazione mediata da quella scrittura. Penso così che l’aspirazione dello scrittore debba essere quella di assomigliare a Ovidio nella comunicazione di oggi; anche sé Ovidio resta inimitabile.

E il racconto, inteso come trasmissione di valori culturali o di identità di un popolo?
Ripeto. Il racconto e la sua importanza stanno racchiuse nello scrittore, nella sua capacità d’ammaliare il lettore. Com’è ovvio parlo solo di ciò che mi è più confacente cioè il romanzo, non della saggistica o altre forme di scrittura.

Va bene, indubbio l’interesse che lo scrittore deve suscitare. Però come si spiegano taluni, chiamiamoli così, fenomeni di stanchezza. Si dice che in Italia si legga poco.
Si pensa, ma io non credo sia così. Lo dimostra la realtà del best seller – un Harry Potter o un Codice da Vinci. Per creare un successo, e invertire la rotta tracciata da (eventuale) stanchezza di lettura, oltre ai contenuti interessanti deve reggere l’intera catena – le azioni di marketing, la buona distribuzione –, perché il fascino della carta è intramontabile, sia nel leggere che scrivere, e non penso possa essere facilmente soppiantata da personal e video-giochi (tentazioni possibili a parte).

Un' ultima domanda, la letteratura siciliana?
Anche lì può essere utile ri-leggere. Se guardiamo al Gattopardo, un successo mondiale, credo che il pensiero dello scrittore sia stato in parte travisato. Non so fino a che punto il Tomasi di Lampedusa intendesse spingere il limite dell’irredimibile destino isolano. Se guardo all’impegno sociale e politico di Sciascia – un grande – il pessimismo del principe di Salina contrasta. Tra gli altri autori contemporanei mi piacciono Bufalino, Consolo, ma anche altri, che invito a ri-leggere.

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